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Il Gender Gap in Italia. Che cos’è e a che punto siamo
Olgiata

Il Gender Gap in Italia. Che cos’è e a che punto siamo

L’elezione del primo presidente del consiglio donna in Italia è stata salutata con soddisfazione perfino nel tweet del segretario del principale partito d’opposizione, quale manifestazione concreta del progressivo abbattimento del “tetto di cristallo”. Ma la situazione italiana in quanto a parità di genere ci vede in posizioni preoccupanti per una nazione civile e democratica.

Il termine Gender Gap indica il divario esistente tra uomini e donne misurato con parametri oggettivi in tanti ambiti diversi, come la salute, l’educazione, il lavoro, la parità salariale, l’accesso alla vita politica e sociale, eccetera.

Il World Economic Forum stila dal 2010 un indice basato su indicatori statistici sulla parità di genere denominato Gender Gap Index che poi viene applicato alle singole nazioni.

Attraverso tale indice si stila una classifica tra le nazioni, partendo da quelle più virtuose, dove nascere donna non influisce troppo negativamente sulle proprie possibilità di realizzazione umana e professionale, seguono i paesi dove la parità di genere è ancora un miraggio fino ad arrivare ai casi estremi di alcune nazioni integraliste dove oggettivamente nascere donna è un gran bel problema.

Il Gender Gap è un indice statistico composito basato su quattro indicatori che a loro volta sono basati su dei sotto indicatori ponderati in base a dei pesi.

Gli indicatori misurati sono:

  • Partecipazione e opportunità
  • Educazione
  • Salute e Sopravvivenza
  • Potere Politico

L’indice relativo alla partecipazione ed opportunità rileva la partecipazione percentuale dell’altra metà del cielo alla forza lavoro, la parità salariare a parità di mansioni e anzianità tra donne e uomini, le posizioni di rilievo femminile tra i dirigenti ed i membri dei consigli d’amministrazione nelle società pubbliche e private e la partecipazione delle donne alle facoltà tecniche, le cosiddette STEM (Science, Technology, Engineering e Mathematics).

L’indice relativo all’educazione rileva se esistono differenze notevoli tra i tassi di analfabetismo femminile e maschile, nonché la percentuale di partecipazione delle donne agli studi superiori come la laurea, il master e i dottorati dii ricerca.

L’indice relativo alla salute e sopravvivenza identifica invece se esistono differenze tra i sessi nelle aspettative di vita o alla nascita, in quanto in alcuni paesi (ad esempio la Cina, nel periodo dell’obbligo del figlio unico) si è adoperato e si adopera, il cosiddetto aborto selettivo a seconda del sesso del nascituro.

Infine, l’indice relativo alla partecipazione al potere politico delle donne indica la percentuale delle donne tra i parlamentari ed i ministri, tenuto conto che ormai il voto alle donne, seppur con scarsissima partecipazione in alcune nazioni, è praticamente esistente in tutte le nazioni del mondo. L’ultima nazione, in ordine di tempo, ad averlo concesso è l’Arabia Saudita nel 2015.

In Italia le donne votano relativamente da poco tempo (30 gennaio del 1945).

Sulla base di tale classifica viene stilato un valore percentuale calcolato su 146 nazioni e che indica di quanto si è colmato il divario tra uomini e donne.

Nessun paese del mondo, ad oggi, ha raggiunto il valore del 100% che indicherebbe che nascere uomo o donna non influisce per nulla sulla realizzazione umana o professionale, cioè la piena parità di genere.

Il paese al mondo che è più vicino alla totale parità di genere è l’Islanda (90,8%), seguito dalla Finlandia (86%) e dalla Norvegia (84,5%), questi tre paesi sono tra i primi che hanno concesso il voto alle donne agli inizi del secolo scorso.

Tra le ultime nazioni troviamo l’Afganistan, nettamente tornato indietro nell’indice dopo il ritorno del regime talebano, il Pakistan, il Congo e l’Iran.

Il coraggio di questi giorni delle donne persiane, che stanno rischiando la pelle per diritti che in occidente consideriamo acquisiti da tempo, interroga le coscienze di tutti.

Non a caso denomino quella nazione con il nome di Persia e non Iran per ricordare a tutti che un popolo dalla cultura e tradizione millenaria merita attenzione e rispetto da parte di tutto il mondo.

Va anche detto che la parità di genere, come intuitivamente potrebbe sembrare, non è affatto un primato del solo mondo occidentale.

Il Rwanda è ad esempio il sesto paese al mondo per la parità di genere e la Namibia l’ottavo. Il caso del Rwanda è veramente particolare in quanto questa martoriata nazione, teatro di uno dei più sanguinosi genocidi dello scorso secolo ai danni dell’etnia Tutsi (morirono assassinate ben 800 mila persone nel 1994 davanti agli occhi impotenti e colpevoli dei caschi blu dell’ONU), sta rinascendo grazie soprattutto alle sue donne. Basti pensare che la Camera dei deputati ruandese è composta al 61,3% da donne.

A livello mondiale, secondo i calcoli effettuati dal World Economic Forum, nonostante gli indubitabili progressi degli ultimi anni, il valore medio è ancora molto basso (68,1% ) e per colmarlo serviranno ancora almeno un paio di generazioni e forse solo i nostri nipoti vivranno in un mondo senza disparità di genere, visto che la stima dell’istituto è che ci vorranno ancora ben 132 anni per raggiungere la parità di genere nella maggioranza delle nazioni.

Il progresso nell’abbattimento delle parità di genere non è affatto lineare anche se la tendenza al miglioramento è consolidata.

Nel 2022 la parità di genere nella forza lavoro si è attestata al 62,9%, il livello più basso mai registrato dalla prima compilazione dell’indice nel 2010. “Le diseguaglianze sono state significativamente esacerbate durante la pandemia, che ha aumentato l’onere del lavoro di cura sulle donne e ha chiuso molti settori con alti livelli di occupazione femminile, come viaggi, turismo e commercio al dettaglio”, spiega Saadia Zahidi, manager director del World Economic Forum, che è l’economista a capo del progetto di ricerca. “Allo stesso tempo, alcuni dei settori più esposti alla crisi pandemica, sono quelli che impiegano un gran numero di donne: assistenza sanitaria, istruzione e altri lavori essenziali”.

Il rapporto dell’istituto indica, inoltre che la parità di genere non solo assicura un mondo più giusto ma anche un mondo più efficace ed efficiente. I dati statistici, infatti, dimostrano che quando il capitale umano è diversificato tra uomini e donne, le aziende diventano più creative e produttive, due qualità che sono essenziali in un sistema economico in continua evoluzione tecnologica.

Ma in Italia come stiamo messi?

Ovviamente molto meglio delle nazioni integraliste, ma a livello mondiale occupiamo una triste posizione, la 63° con un valore pari a 72% che ci vede in classifica tra lo Zambia (62°) e la Tanzania (64°), e già detta così, fa una certa impressione.

I principali punti di debolezza della situazione italiana sono dati dal tasso di occupazione femminile, che ci vede al penultimo posto in Europa, battuti in negativo dalla sola Romania, e la parità di salario.

Su quest’ultimo punto l’Istat ci dice che la retribuzione oraria è pari a euro 15,2 per le donne e ad euro 16,2 per gli uomini; il differenziale retributivo di genere è più alto tra le posizioni apicali come i dirigenti (27,3%) e i laureati (18%).

La discriminazione di genere risulta sia allocativa, cioè le donne sono in maniera percentuale allocate su professionalità a basso reddito rispetto agli uomini, e sia valutativa, cioè detta in soldoni, per le donne risulta oggettivamente più difficile che per gli uomini fare carriera, in quanto con capacità comparabile a quelle dei colleghi maschi vengono discriminate nelle posizioni apicali (il cosiddetto tetto di cristallo).

Va ricordato che su tale punto il legislatore è intervenuto con la legge sulla parità salariale (legge 162/2021) e con il codice sulla parità di genere (d.lgs. 198/2016).

Con le nuove normative le aziende con più di 50 dipendenti (precedentemente 100) hanno l’obbligo di redigere un rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile almeno ogni due anni.

Altra interessante novità è l’introduzione a decorrere dal 1° gennaio di quest’anno, dell’istituto della certificazione della parità di genere, tendente a “ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale e parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità”.

Le aziende pubbliche e private che produrranno tale certificazione saranno destinatarie di una premialità sotto forma di sgravi contributivi e di punteggi premiali per la partecipazione agli appalti pubblici compresi quelli del PNRR.

Insomma, la strada è lunga, ma ci si sta lavorando, e, al di là delle collocazioni politiche, tutti i cittadini italiani sperano che l’avvento del primo presidente del consiglio donna in Italia possa accelerare tale percorso che ci vede in un preoccupante ritardo.

Per approfondimenti

Il report sul Gender Gap Index

Il testo della Legge LEGGE 5 novembre 2021, n. 162

Continuate a seguirci!

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