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La grande via dell’arte (parte seconda)

Secondo capitolo del romanzo “La via meravigliosa”.

Il corpo principale, molto massiccio è rivestito da bugnato rustico. Se le mura di Venezia marciscono per il logorio dell’acqua attraverso il tempo, le mura di questo palazzo invece e ogni singolo mattone, sono talmente impregnati di storia che sembrano vivi di fronte al visitatore. Questa costruzione viene ingentilita da eleganti bifore di marmo che sono inserite in arcate a tutto sesto e dalla torre merlata e slanciata verso il cielo. Il Palazzo ha tre piani, diviso da sottili cornici e culminante con un ballatoio anch’esso merlato. Esempio tipico dell’architettura fiorentina, fu dimora dei Medici, fino a quando Cosimo I trasferì la sede a Palazzo Pitti. Giovanni fece ingresso nel meraviglioso cortile del Michelozzo (1453) dalle colonne rinascimentali, impreziosite da decorazioni barocche.

Al centro del cortile vide la famosa vasca in porfido di Battista Tadda, ove si trova il “Genietto alato con il pesce.” Quest’ultima opera artistica di Andrea del Verrocchio fu eseguita nel 1476.

Intanto intorno a Giovanni vi erano vari curiosi, che come lui entravano nel Palazzo. Generalmente erano stranieri o gente del contado. Osservò l’elegante portale di marmo della Sala dei Gigli, sormontato da una preziosa statua rappresentante San Giovannino e quattro putti con festoni ai lati. Quest’opera è di Benedetto da Maiano. Poi lo Studiolo di Francesco I con la volta a botte e le pareti affrescate con riquadri. Questo ambiente è stato creato dal Vasari. Ed ecco Giovanni infine entrare nel vasto Salone del Cinquecento o Sala delle Grandi Meraviglie. Il Salone fu costruito nel 1495. Le pareti e il soffitto furono affrescati per lo più dal Vasari. Può essere paragonato ad un grande generale con il petto pieno di medaglie commemorative al valore. Infatti in esso quest’ultimo autore onorando Cosimo I dei Medici dipinse le glorie e i fasti trionfali di Firenze: “La battaglia di San Vincenzo a Mare presso Populonia che fu vinta dai fiorentini sui pisani; “La Conquista di Siena”, “La Conquista di Porto Ercole”, “La vittoria di Marciano in Val di Chiana” e infine “L’Imperatore Massimiliano all’assedio di Livorno”.

Battaglia tra pisani e fiorentini a Torre S. Vincenzo (dipinto) di Vasari Giorgio, Naldini Giovanni Battista (sec. XVI)
Trionfo della guerra di Siena (dipinto) di Vasari Giorgio, Van der Straet Jan detto Giovanni Stradano (sec. XVI)
Presa di Porto Ercole (dipinto) di Vasari Giorgio (sec. XVI)
battaglia di Marciano in Val di Chiana (dipinto) di Vasari Giorgio, Zucchi Jacopo (sec. XVI)
Massimiliano imperatore toglie l’assedio a Livorno (dipinto) di Vasari Giorgio, Naldini Giovanni Battista (sec. XVI)

In questi affreschi dai bei colori metallici, come il bianco, il verde, il rosso e le terre di Siena, Giovanni vide con dovizia dei particolari le cariche delle cavallerie e i cavalli scalpitare, i cavalieri con le splendide corazze; le bandiere sventolare al vento sullo sfondo delle colline maremmane, il cielo cupo e nello stesso tempo quasi misterioso; gli eserciti in marcia tra il suono delle trombe, quello dei tamburi e il fragore delle cannonate. Infine la cozzaglia dei contendenti, con i pugnali e le spade in pugno e sotto le mura assediate le tende degli accampati. Seguitò a guardare e ad ammirare eseguendo anche gli schizzi nel suo blocco da disegno: La meravigliosa statua in marmo di “Ercole e Diomede che lottano” del ciclo “Le fatiche di Ercole” ed eseguita dallo scultore Vincenzo de Rossi. Infine la meraviglia delle meraviglie, cioè “La Vittoria” di Michelangelo Buonarroti eseguita dal grande artista nel 1525 per la Tomba di Giulio II. Con questa statua in marmo di Carrara, di mirabili proporzioni michelangiolesche, l’autore ha voluto rappresentare il simbolo del Trionfo di Firenze appunto nel Giovinetto, eretto in piedi, dallo sguardo composto e fiero, che abbatte e domina con la sua forza virile, la tirannide. Ed ecco Giovanni salire la scalinata di uno dei più famosi musei del mondo, “La Galleria degli Uffizi”, in esso ci sono i capolavori di Scuola Fiorentina, Italiana nonché Fiamminga. Sorta per opera di Francesco I fu più volte ampliata. Al principio vi era soltanto la famosa Tribuna, commissionata al Buontalenti e il primo corridoio, appunto per raccogliere le prime collezioni, poi si ingrandì sempre più per opera dei Medici e dei Lorena. Acquistò l’assetto definitivo (due corridoi uniti da uno più piccolo) per opera di Cosimo III. Fu notevolmente arricchita dal Cardinale Leopoldo Medici e Anna Maria Ludovica l’ultima erede medicea lasciò l’immensa eredità allo stato toscano. Questo patrimonio consistente in una ricca e famosa Pinacoteca, comprende anche opere di scultura, raccolte scientifiche ed armi. La Galleria fu più volte riordinata come assetto, dal 1780 al 1782 e anche l’ingresso fu aperto sul Piazzale degli Uffizi, sostituendo quello originale. L’ultimo riordinamento si ebbe dal 1830 al 1865 e furono trasportate in altro luogo le ricche e famose collezioni archeologiche, le sculture romaniche, gotiche e rinascimentali. Giovanni vide un certo movimento di lavori attorno a delle impalcature di legno e una folla di curiosi che girava lì intorno. In questa atmosfera la fantasia di Giovanni cominciò a spaziare e quelle figure che erano intorno a lui, presero vita e cominciarono a respirare. Gli sembrò di stare nella Firenze del 400. Ed ecco divenire realtà quello che giorni addietro lo tormentava, cioè l’origine del Rinascimento Italiano. Il movimento principale che lo aveva animato, doveva ricercarsi nei Primitivi e nei Quattrocentisti. Il dipinto che attirò di più il suo interesse fu “La Nascita di Venere” di Sandro Botticelli. Questo stupendo e famoso dipinto, dai bei colori quasi metallici, fu commissionato dall’artista da Lorenzo di Pierfrancesco de Medici e destinato alla sua Villa di Castello. Fu eseguito nel 1485. La fanciulla dai capelli al vento, in piedi, nella conchiglia si trova al centro del dipinto mentre è sospinta verso il boschetto da Flora dea della Primavera, dalla cui bocca cadono fiori e rinforzata da Zeffiro, il dio del vento, che viene raffigurato con le ali e le gote rigonfie. A destra una delle Ore che ha sullo sfondo gli alberi e la costa frastagliata, vestita con un abito a fiori, cerca di avvolgere la Dea con un mantello. L’armonia aristocratica della composizione, della linea e del colore verde smeraldo, arancione, d’oro e azzurro segnano il punto più alto dell’estetica botticelliana. Proprio in questa figura di Venere, dall’aspetto modesto e nello stesso tempo indifferente, che si copre pudicamente il corpo con i propri capelli color oro, Giovanni fu colpito dal comportamento austero e dall’essenza ancora pura del popolo fiorentino. Egli rivide quei luoghi e quelle piazze riempirsi di dame aristocratiche dalle lunghe gonne e dai biondi capelli e i loro cavalieri con i mantelli color rosso porpora e con le loro calze a maglia colorate e infine i famosi menestrelli. Giovanni entrò dentro l’animo di colui che aveva creato quei capolavori. La figura di Sandro Botticelli, gli apparve limpida e austera, simile a quella degli autoritratti nelle sue opere. Attraverso lo sguardo comunicava con lui e cominciò a parlargli della sua vita e delle sue opere.

“Sono nato a Firenze nel 1445, da Mariano Filipepi conciatore di cuoi. Quando ero fanciullo, non avevo molto appetito ed ero cagionevole di salute. Solo il disegno e il lavoro assiduo mi davano la forza di vivere. Fui mandato a scuola nella bottega del pittore Filippo Lippi, poiché ero poco portato per le umane lettere. Mio fratello Giovanni invece, pieno di salute e grasso e grosso come una botte (tanto che lo chiamarono il Botticello), in questi anni si prese cura di me. A forza di stare con lui, in arte, in seguito, mi chiamarono Il Botticelli. Ai miei tempi Firenze era veramente una grande città sotto tutti gli aspetti e risplendeva della sua potenza politica ed economica. Ero contornato da grandi ingegni. Il Pollaiolo e il Verrocchio avevano già fatto le loro carriere e stava per risplendere l’astro di Leonardo da Vinci. Ero in contatto con uomini colti che seguivano la filosofia neoplatonica. Ancora giovane entrai nella famosa cerchia medicea. Lavorai molto per questa e per Lorenzo il Magnifico. Dipinsi, come del resto fece anche Leonardo le effigi dei congiurati della congiura dei pazzi impiccati che vedo ancora penzoloni sulle forche, mentre la loro ombra dondolante, si proietta sulla nuda terra. Tutto è scritto nella storia, anche gli errori che noi commettiamo. Vorrei tanto non averne commesso alcuno, poiché gli errori che noi facciamo, ricadono su di noi e la storia è inesorabile e va sempre avanti come la nostra vita. Nel 1481 fui chiamato a Roma per dipingere “Le Storie di Cristo e del Mosè nella Cappella Sistina a San Pietro.

L’anno dopo ritornai nella mia patria e ripresi a dipingere, poiché tutto quello che si fa qui, viene plasmato da un’altra aria che è differente da quella di Roma. Da noi comanda il popolo fiorentino e nessun altro. Per questo si lavora molto meglio. Sembra che i nostri antenati artisti ti proteggano. Guarda visitatore il panorama di Firenze, con le sue mille case, le grandi cupole simili a mongolfiere, i campanili dalle cuspidi a punta che sembrano toccare il bellissimo cielo azzurro e trasparente, il Ponte Vecchio sull’Arno che bagna le case e le mille cose di questa città ed ove una volta mille lavandaie cantavano, lavando i panni, le leggende di due fiumi che furono allattati da una grande signora e i loro canti echeggiavano per le varie vallate, fino in Val di Chiana. Ammira le sue molteplici chiese e i fastosi palazzi con migliaia di capolavori. Guarda le sue verdi colline, gli altissimi cipressi maremmani che assieme ai secolari pini mediterranei e alle mastodontiche querce, si stagliano lassù, verso il cielo di Firenze, mentre intorno brulica la selva di altri alberi, frutteti e cespugli. E ancora Fiesole con le antiche vestigia romane e qualche poggio brullo seminato ad orto. E quando spira il dolce venticello nel vespro, senti, nelle narici proveniente da quelle alture, il profumo di tutta quella vegetazione; mentre nelle orecchie senti poi udire il suono armonico, melodioso e ridondante di mille campane, facente eco nei vicoli e nelle piazze. Ma non ti ho detto tutto, poiché se vuoi conoscere Firenze e i fiorentini devi osservare ogni angolo di questo luogo e vivere in questa città. Se esci fuori la porta e Sali verso San Casciano, quando arrivi in questo paesino, dalla strada sentirai ancora le bestemmie del nostro segretario della Repubblica Fiorentina Niccolò Machiavelli mentre beve il rosso vino e gioca a carte, in una vicina osteria. Siamo fatti in questa maniera. Ci piace mangiare, bere, il festino e l’orgia. Forse sarà bene parlare di genio e sregolatezza. Ma abbiamo dato alla storia uomini illustri, anche se siamo indifferenti a questo. D’altronde la nostra origine è quella etrusca e altri uomini daremo alla storia. Pensa soltanto che nelle nostre tombe, cioè quelle dei nostri antenati, si trovano ancora gli oggetti usati in vita dal morto, cioè i letti conviviali, la posateria, le tazze e i bicchieri come se la sua esistenza si prolungasse, identica come visse, oltre la morte. I morti sono sepolti oltre l’Arno. A Santa Croce ci sono i sepolcri di quelli più celebri. Ma è a Firenze, in città, che si aggirano i nostri fantasmi, poiché ognuno di noi rivive le imprese fatte in vita e dialoghiamo con i visitatori provenienti da ogni parte del mondo, anche dalle regioni più remote. Questa è la grandezza di Firenze e l’aria di tutto quello che ho detto, la senti in ogni luogo d’Etruria, fin giù verso il mare. Quando ritornai nella mia città ricominciai a dipingere tutto quello che c’era di più caro, cioè le favole antiche, le madonne e le pale d’altare. Ed ecco uscire dalle mie mani “La Madonna del Magnificat”, “La Madonna della melograna”, “La Pala di San Barnaba”, “L’Incoronazione della Vergine” per la chiesa di San Marco, “La Madonna e Santi” per Santo Spirito e “L’Annunciazione” per i monaci di Cestello.

“Annunciazione di Cestello” di Botticelli

Ma già all’orizzonte vedo fiamme e fuoco: la morte di Lorenzo e le prediche del Savonarola che dal suo pulpito inveiva contro la licenza e la corruzione. Molte mie opere staccate dalle pareti delle case fiorentine arsero nei roghi. Con esse bruciò il fuoco dentro di me ed ebbi il bisogno di purificarmi. La depressione e la malinconia invasero il mio spirito e tutta la mia persona. Vedo ancora oggi, in Piazza della Signoria, fra schiamazzi e grida del popolo quei giovinastri, affiliati al frate bruciare le mie stupende opere. Mentre le tele diventavano cenere e quelle fiamme divoratrici salivano sempre più su, assieme al nero fumo che pareva satana in persona e il riflesso di quella luce funesta colpiva le mura dei palazzi attorno quest’ultimo, vestito con una tunica scura, pareva che mi additasse e con tutta la rabbia che aveva in corpo, mi ordinava di abbandonare il mio lavoro per salvare la mia anima, ormai in pericolo mortale, come tante altre a Firenze, poiché non potevo più dipingere quelle sante figure con le fattezze dimesse e popolari. Con esse bruciò il fuoco.  Mi ritirai a dipingere in disparte per pochi committenti in una torre sperduta nella maremma.  Ormai a Firenze dominava Leonardo, Raffaello, Michelangelo. Per me non c’era più posto. Il 17 maggio del 1510 venni sepolto nella chiesa di Ognissanti e mentre calavano la bara nella mia tomba udii le parole del prete che diceva: “Polvere sei e polvere ritornerai”. Mentre la campana lontana con il suo eco, suonava perennemente a morto.

Mentre Giovanni camminava nei sontuosi corridoi ed i suoi passi cadenzati, risuonavano in quei luoghi, gli parve che le opere d’arte gli andassero incontro parlando di sé stesse. Ognuna desiderava che Giovanni si fermasse a parlare, ricordandogli il loro autore. C’era soltanto l’imbarazzo della scelta. Egli voleva approfondire ognuna di esse. Ora sentiva l’odore del colore di quelle tele, frammisto a quello della polvere, che i secoli e la storia avevano depositato sopra di esse ed era simile a quello della terra, giacente sulle strade, scavate nel tufo in maremma dagli etruschi e che quando spira il vento ti va in gola ed è proprio in quel momento, che senti nel palato il sapore della storia antica. Ecco Ancora il Botticelli farsi avanti con la sua “Annunciazione”. A Giovanni sembrò che quest’ultimo non volesse lasciarlo. Infatti gli parve di sentire nei suoi orecchi: “Qualcuno mi vendicherà!” Poi subito dopo uno splendido dipinto rappresentante una donna nuda sdraiata su di un lenzuolo, posto su di alcuni cuscini ed un cagnolino da salotto ai suoi piedi. Il tutto con sfondo una scenografia d’interni. L’opera fu eseguita nel 1538 sotto gli influssi del Giorgione, con grande maestria e delicatezza, sia nel disegno che nella calda luminosità dei colori, dalla mirabile mano del Vecellio che era stato anche alla Scuola Veneziana dei fratelli Bellini. Il “Ritratto di Federico da Montefeltro”, con il naso a becco d’aquila e quello della propria moglie Battista Sforza, opera eseguita nel 1466 da Piero della Francesca. Grandi nomi risuonavano quel giorno nella sua mente. Sembrava che qualcuno li avesse riuniti in quel luogo, per una grande adunata al suo cospetto e un Giudizio Universale e già gli parve di sentire le trombe degli angeli. Quei grandi personaggi reclamavano qualcosa di loro pertinenza. “Ecco amico mio, ora ci siamo tutti!” Pareva che dicessero in coro. “Vogliamo essere ricordati poiché non siamo un camposanto, ma vivi per ricordare alle generazioni future la strada da percorrere realmente per mantenere integre la società e l’arte. Per evitare questo e considerando l’attuale situazione un momento di stasi come intervallo di grandi eventi, ecco di fronte a te “L’Annunciazione” del grande Leonardo Da Vinci; sua opera giovanile.

“Annunciazione” di Leonardo da Vinci

Quest’opera la eseguì tra il 1475 e  il 1478 per il Convento di Monteoliveto. Il dipinto presenta già molti elementi che si noteranno poi nei lavori dell’età matura. Come ad esempio la descrizione nitida, descrittiva e particolareggiata, sia dei vari personaggi, (Madonna ed Angelo) sia della scenografia naturalistica (fiori, erbe e piante). Quando Giovanni osservò l’Angelo di profilo e la Madonna di tre quarti, in primo piano, il suo sguardo si rivolse mano a mano verso lo sfondo, fatto per lo più di alberi e cipressi stilizzati assomiglianti a bulloni e condotti di turbine e più in là la nebbia che offuscava la visuale. Aveva capito l’arte di Leonardo e Leonardo si materializzò davanti ai suoi occhi narrandogli la sua storia: “Sì sono io il grande Leonardo Da Vinci e non meravigliarti se mi definisco “Uomo senza lettere”, poiché io agisco nella mia piena autonomia, legato ai movimenti astratti del mio tempo. Ho trovato invece tra la gente semplice come i fabbri e i falegnami. Proprio come fai tu, devo procedere per diretta esperienza e non sono le cose di questo mondo che vengono a me, ma io mi muovo verso di loro. In esse vedo la loro essenza e la loro origine. Per questo la natura è una grande maestra e il disegno un mezzo pratico e manuale per memorizzare tutte le nostre dirette osservazioni. L’Arte come tutte le cose di questo mondo, non è nata per caso, ma c’è un motivo per cui è stata costruita. Anche la scintilla primordiale, è stata fatta scoccare per creare poi l’Armonia Universale. Siamo degli esseri in provetta. Degli animali pensanti e in quanto alla nostra intelligenza è molto discutibile (chi sa da dove viene?) Poiché tutto è meccanico, compreso l’uomo e quando squarto i cadaveri, essi non hanno un’anima. Vorrei andare sempre più avanti, ma la durata della mia vita è insufficiente. Per questo mi tengo in disparte e cerco di guadagnare il tempo. Dipingo anche io ma sono geloso delle mie cose e non mi piace il commercio dell’arte e la competizione intorno ad essa, come in un baraccone da fiera! Mi fanno ridere alcuni pittori del nostro tempo, che si esibiscono su di una passerella, senza cultura e professionalità! Imbrattatori di tele, al servizio dei loro padroni, che li tengono al guinzaglio come cani famelici, dando ogni tanto ad essi un misero osso per sfamarli. La mia Scuola, invece, fu quella celeberrima del Verrocchio, ove entrai nel 1469 ed ivi studiai assiduamente anatomia e prospettiva e feci molta pratica del disegno. Quante ore mi prese lo studio assiduo e attento dell’anatomia umana! Con quanta passione il mio celebre maestro, mi guidò a comporre i vari elementi nell’equilibrio e nell’ordine formale! Soprattutto con il disegno eseguito con il dolce chiaroscuro che sfuma e addolcisce la figura potei liberarmi dalla schiavitù delle scuole plastico-lineari precedenti, cioè dalla tradizione. Se vuoi allenarti nel disegno, hai ancora qui un tipico esempio nell’”Adorazione dei Magi” che dipinsi per i frati del Convento di San Donato a Scopeto nel 1481.

“Adorazione dei Magi” di Leonardo da Vinci

Purtroppo quest’opera rimase inconclusa, poiché dovetti caricare in poco tempo i miei muli per raggiungere a Milano Ludovico il Moro e mostrargli le mie alte doti di musico, di ingegnere militare, di esperto in strategia, di costruttore di armi, di ingegnere idraulico, oltre che di architetto, di scultore e di pittore. Questa è stata la mia vita. Comunque in quest’ultima opera il chiaroscuro fa da protagonista, dando vita alle figure che si accentrano attorno alla madonna con il bambino. Poi c’è la “Vergine delle rocce” della quale si deve parlare.

“Vergine delle Rocce” di Leonardo Da Vinci

È di schema piramidale, secondo gli insegnamenti del mio antico maestro. Qui la luce entra nell’ambiente, filtrando, appunto, dalle rocce e illuminando soltanto i personaggi chiave della scena  e creando, quindi, intorno ad essi un’atmosfera arcana e nello stesso tempo irreale. Passo dal chiaroscuro in sfumato, per meglio capirci in un più lento e quindi graduale passaggio dalla luce all’ombra, cioè con l’inserimento di mezze luci e mezze ombre. Ottengo, in questa maniera, una più concreta vitalità spirituale di tutte le immagini nello spazio e nel tempo. Ho fatto tante opere d’arte, “Il San Gerolamo”, “Il Cenacolo” per Santa Maria Delle Grazie a Milano, “La Gioconda” con il suo sguardo enigmatico e migliaia e migliaia di disegni. Ho lavorato molto nella mia vita di girovago. Nacqui  a Vinci nel 1452 e morii ad Amboise in Francia nel 1519. Siccome una giornata ben spesa da lieto dormire, così una vita ben spesa da lieto morire.” A Giovanni parve che il vecchio Leonardo, dopo aver detto queste ultime parole, scomparisse in una grande tomba di marmo, mentre le sue robuste mani coprivano il coperchio lavorato.

“Bacco” di Caravaggio

Quando fu dinanzi all’opera del “Bacco adolescente”  vide materializzarsi davanti a sé l’anima di Caravaggio che cominciò narrare la sua storia: “Non avevo che undici anni quando fui messo a lavorare nella bottega del pittore bergamasco Simone Peterzano. La maniera non mi piaceva ed ero uno spirito irrequieto. Il sangue mi ribolliva nelle vene e macinare i colori era un autentico schifo! Una volta a quello lì glieli gettai in faccia! Dovevo riscattare la pittura morta e dimessa dei secoli passati dandole nuova vita! Vendicare, in poche parole, tutti coloro che erano stati schiavi di un concetto aulico e prepotente, poiché ognuno di noi è nato libero e libero deve rimanere, no schiavo della società che lo ha prodotto! Vedi, quando dipingo o studio, io cammino, poiché la natura, l’arte, le persone e le cose, con i loro colori ed i loro elementi che li compongono, sono mutevoli nello spazio e nel tempo. Quindi, ragazzo mio, per conoscerli bene bisogna muoversi come un cronista. In Lombardia il Campo si restringeva. Per lo più i pittori non riuscivano ad inserire nelle loro composizioni la luce, invece a me era congeniale. Fui sempre ribelle, poiché l’umanità non è perfetta. Ed ecco sorgere il Cavaliere D’Arpino, il Grammatica e Pandolfo Pucci. Alla fine il Cardinale Del Monte mi capì e quindi mi concedette attraverso il suo mecenatismo, la sua committenza. Comincia verso lo scorcio del XVI secolo la grande produzione, ormai da tutti conosciuta. “I Bari”, “La Zingara che da la buona ventura”, “Il Ragazzo con il canestro di frutta”, “Il Ragazzo morso dal ramarro”, “Il Concerto”, “La Suonatrice di liuto”, “Il Bacco”, “Il Bacchino malato”, “L’Amore vincitore” e “La Canestra di frutta”, dipinta per il Cardinale Federico Borromeo. Poi cominciarono le grandi committenze da parte del Cardinale Del Monte: “Le Storie di San Matteo” per la Cappella Contarini in San Luigi Dei Francesi. Nella Parte laterale “La Vocazione di San Matteo” e “Il Martirio del Santo” ove rinvigorii e accentuai lo stacco tra la luce intensa  che ricevono i corpi e le ombre scure. Disegnai sempre di getto e apportai poi una revisione pittorica, appunto, nel colore. Ma ecco apparire all’orizzonte i soliti cialtroni che popolani sono e popolani devono rimanere, senza criticare troppo le loro vere sembianze! Per fortuna degli animi nobili, di stirpe e di fatto vennero incontro a me. Ad esempio i Barberini, i Giustiniani, i Massimo e i Mattei. Questi grandi personaggi mi dettero la forza di creare altri capolavori, come “La Santa Caterina”, “La Medusa”, “Il Narciso”, “Il San Francesco e l’angelo”, che in seguito capirono e comprarono, mettendo la mano alle loro borse, alcuni nobili stranieri pari a quelli italiani. Quindi non mi fermò più nessuno e andai avanti con la mia produzione. Dovevano finirla questi bastardi, che ancora oggi con i loro soprusi e arroganze a tutti i livelli politici, dicono che Gesù e i suoi amici poveri siano nati ricchi! Questo è il vero Caravaggio e non dare retta a chiacchere di sorta! Ecco allora “La Conversione di San Paolo” per la chiesa di Santa Maria Del Popolo a Roma e “La Madonna del serpe” e “David con la testa di Golia”.

“Davide con la testa di Golia” di Caravaggio

Sì, la testa, è il mio autoritratto e già presto nella mia vita breve, laboriosa e piena di malanni, fin da quando ero ragazzo fomentavano contro di me. Pensa che sono stato ricoverato varie volte per la mia salute cagionevole. Questo era un mio eterno assillo e allora questi che cosa vogliono da me? La mia testa! Comunque cominciarono ad arrivare le commissioni ufficiali nei primi anni del Seicento: “La Crocefissione di San Pietro”,  “La Conversione di San Paolo” per le pareti laterali della Cappella Cerasi, sempre per la chiesa di Santa Maria Del Popolo, “La Sepoltura di Cristo”, “La Madonna dei Pellegrini”. Fin quando arrivò il mio grande capolavoro che sintetizza tutta la mia pittura precedente, cioè: “La Morte della Vergine”.

Presi per modella una povera meretrice annegata nel Tevere. Passavo per il ponte che mena verso Castel Sant’Angelo, quando vidi alcuni barcaioli pescare il corpo di questa sventurata e gridavano verso la riva ad altre persone. Più tardi andarono sul greto del fiume. Quel giorno il cielo era nuvoloso, intorno l’atmosfera era assai triste. Le foglie larghe e gialle cadevano nel fango. Nei giorni scorsi aveva piovuto molto e il Tevere con la sua acqua sporca era in piena. Andai di corsa verso di loro e mi trovai, subito, di fronte a quella misera scena. La fanciulla dai capelli rossi e scompigliati dall’acqua sporca, indossava un vestito rosso. Il suo volto pallido, aveva lo stesso colore della cera e ugualmente le sue lunghe mani affusolate e ormai abbandonate e senza vita. Su tutto vi era la gialla patina del fiume. Sembrava, con i suoi occhi socchiusi, che dormisse. Finalmente anche lei ha finito di tribolare una volta per tutte, pensai tra me. Un barcaiolo le coprì il volto con una coperta grigia. Al cocchiere dell’obitorio gli detti una congrua mancia e gli dissi di fermarsi con la carrozza che portava la morta, per breve tempo, presso il mio studio. Il resto è di comune conoscenza. Quest’opera fu respinta dai frati di Santa Maria della Scala con la solita tiritera. Quindi fu la volta della “Cena in Emmaus”.

Ormai intorno a me infuriavano polemiche, liti, accuse di infamia, processi e condanne. Fui ferito durante una partita di pallacorda da un tale di nome Tommassoni. La ferita mi doleva e il nemico incalzava. Allora non ci vidi più e lo uccisi con la mia spada. Fuggii, dapprima, nei feudi dei Colonna e poi a Napoli. A Napoli dipinsi “La Madonna del rosario” che in seguito fu un esempio importante per i pittori fiamminghi. “Le Sette Opere di Misericordia” per il Pio Monte della Misericordia, “La Flagellazione” per San Domenico Maggiore. Tutte Opere Capitali che fecero poi testo per i pittori napoletani del 600. Cercai ancora di nascondermi, ai gendarmi, per il delitto commesso e riparai a Malta, poiché oltre non potevo andare. Qui dipinsi moltissimo. La mia attività era febbrile. Eseguii il “Ritratto del Gran Maestro dell’Ordine”, “L’Amorino dormiente”, “Il San Gerolamo” e il mio capolavoro di questo periodo cioè “La Decollazione del Battista” che è nell’Oratorio del Crocefisso in San Giovanni alla  Valletta. Ma anche qui c’erano i soliti buffoni di corte che pullulano in gran quantità nel mondo, sempre con la puzza sotto il naso. Dissi, in un momento di coraggio ad uno di loro quello che si meritava. L’ipocrita mi fece imprigionare! Io riuscii a fuggire con una barca di pescatori e mi attesero montagne d’acqua, prima di avvistare la costa siciliana. Ormai sentivo davanti a me una muraglia. Avevo troppi nemici intorno. Per molti ero già un uomo spacciato. Allora corsi ai ripari e giravo armato di un grande spadone, vestito con un corpetto di corazza e avevo assoldato un servo che mi accompagnava, armato anche lui di spada e pugnale. La paura e la depressione mi assalirono. Eseguii opere sempre più ombrose con sfondi tetri. A Siracusa dipinsi “La Sepoltura di Santa Lucia”, “L’Adorazione dei Pastori” e “La Resurrezione di Lazzaro” a Messina e un’altra “Adorazione dei Pastori” a Palermo. Tornai di nuovo a Napoli, il paese del sole che ha per sfondo il Vesuvio. Dove in ogni osteria si mesce il buon vino partenopeo e tra le mandolinate in maschera si mangiano i maccheroni prendendoli con le mani. Ove si ride, si scherza ed ogni scugnizzo è felice. La zingarella ti legge la mano. Anch’io volevo gioire con quella gente che avevo dipinto. Aspettavo la remissione della pena, per rientrare finalmente nella Città Eterna. Pensai che forse il destino mi stava aiutando. Ebbi un attimo di esitazione e lasciai la guardia a casa. Mentre stavo per uscire da un’osteria, i sicari del Cavaliere di Malta mi assalirono ferendomi e sfregiandomi. Uno contro cinque. A Roma mi davano ormai per morto. Mi imbarcai su di una nave diretta verso le coste toscane,  con soltanto un bauletto contenente poche cose. A Porto Ercole mi imprigionarono per sbaglio e quando venni rilasciato, la nave era ripartita con a bordo i miei pochi averi. Morii di bile e malaria, solo e abbandonato su di una spiaggia vicino a Porto Ercole, in un giorno di luglio del 1610”.

Sacra famiglia, detta “Tondo Doni” di Michelangelo Buonarroti

Giovanni man mano che si avvicinava al famoso “Tondo Doni” che rappresenta la Sacra Famiglia, dipinto da Michelangelo, sentì subito il bisogno di dialogare con l’artista. “Michelangelo dove sei?” “Si può sapere dove ti sei cacciato tra queste opere?” Andava dicendo con frenesia Giovanni, mentre si avvicinava alla famosa opera dai colori metallici che li sentiva fin sotto il palato. “Michelangelo dove sei?” Allora sentì una voce pari ai suoi colori. “Sotto terra non lo sai!” “Da tempo a fare i vermi amico mio!” “Ma in vita fui un grande!” “Vedi io ti dico che la pittura mi pare più tenuta buona quanto più va verso il rilievo”. Michelangelo iniziò a raccontare la sua vita: “Nacqui il 6 marzo del 1475 da Ser Ludovico Buonarroti Simoni e da Francesca di Neri a Caprese. Chiamato così quel luogo, poiché un tempo vi pascolavano le capre. Fui poco portato alle umane lettere. Il mio celeberrimo maestro fu Bertoldo alla Scuola di Lorenzo Il Magnifico, nei Giardini di San Marco a Firenze. Alla Corte dei Medici feci le mie prime sculture: “La Battaglia dei Centauri” e “La Madonna della Scala”. Ebbi paura di Carlo VIII e fuggii a Bologna e poi a Venezia. In questa città lavorai al compimento scultoreo dell’”Arca di San Domenico”. Quando fu riconsolidata la Repubblica Fiorentina, ritornai a Firenze per seguire le prediche del Savonarola, ma quel soggiorno fu di breve durata, poiché nel 1498 mi recai a Roma a lavorare. Per la famiglia Galli feci il “Bacco marmoreo” e poi ecco dalle mie mani che con lo scalpello picchiavano il marmo, uscire la famosa “Pietà” per San Pietro.

Tornai poi a Firenze nel 1501 e quello fu un periodo di grande attività come del resto è stato ogni momento della mia vita. Infatti le mie mani scalpellavano senza posa e quando si riposavano disegnavo. Mentre il mio unico svago erano gli studi letterari. Feci “Il David” simbolo della libertà del popolo fiorentino. Dipinsi il “Tondo Doni” e tante altre cose. Sì lo so quello che pensi, ma è proprio così. Lavorai, lavorai tanto e cercai sempre di perfezionarmi, finché  rimasi solo, poiché purtroppo questa è la vita. A marzo del 1505 il Papa Giulio II mandò un messo con una lettera nella mia bottega, mi voleva a Roma per costruire il suo monumento sepolcrale. Vi andai e feci il mio dovere. Comunque sono fiorentino e l’idea di una tomba grandiosa mi dette sempre ai nervi. Dio attraverso Gesù ha predicato sempre l’umiltà. Poi i messi papali nella Repubblica di Firenze mi sono sempre sembrati dei ficcanasi. Un giorno mi stufai di andare su e giù per i tanti impegni di lavoro, tra Firenze, Roma, Carrara e Pietrasanta, dove appunto mi interessavo personalmente, alla cava dei blocchi di marmo per le mie sculture. Poi c’era da aggiungere l’assidua attenzione ad eseguire le varie opere sul posto. Il malore, i nervi e il mal di marmo! Piantai tutto a Roma, lasciando il Papa con un palmo di naso, perché fiorentino sono e fiorentino rimango, come il sangue che mi scorre nelle vene! Quello di rimando lo sai che fece? Dette ordine ai suoi giannizzeri di inseguirmi fino a Poggibonsi! Ecco quello che fece! Ma fui io più duro e testardo di lui, perché sono Michelangelo Buonarroti! Erano armati e si fecero sotto per ricondurmi dal Papa Giulio II. Stavo mangiando del formaggio e bevevo vino in una locanda. Fecero per avvicinarsi e io gridai con quanto fiato avevo in gola: “Da quando in qua le terre fiorentine sono sotto il dominio Pontificio! Tutti gli avventori della locanda che erano fiorentini, si strinsero intorno a me, poi costrinsero i gendarmi a fuggire. Mentre io continuavo a bere e a mangiare, i giorni seguenti a Firenze, furono molto tristi per me, perché il vecchio Papa, in fin dei conti, mi voleva bene. Le ore erano lunghe e interminabili. La notte non dormivo e sulla città era calato uno strano polverone giallastro. Non era vita e avevo paura che da un momento all’altro l’inattività avrebbe provocato la depressione, poiché i pensieri si facevano sempre più bui, come il tempo di quei giorni. L’unica cosa che confortava il mio tormento, era il mio cavallo, legato davanti alla mia bottega e non capivo il perché. Una notte tirò molto vento e le tende rosse delle mie grandi finestre ad arco si gonfiarono. Io mi strinsi forte al cuscino e dormii profondamente. Fu allora, che in sogno mi apparve lui, il Papa, su di una grande nube bianca, che con voce metallica e quasi cavernosa, mi disse: “Michelangelo vuoi forse tradire il tuo Papa! Non ti bastano tutte le sofferenze che stai provando? Torna da me e nuovi giorni ti attenderanno! Il suo sguardo era molto triste e severo. Il giorno dopo riempii le bisacce e inforcai il mio cavallo dirigendomi sulla Cassia verso Roma. Mi sembrò di tornare a casa. Il vecchio Papa mi accolse nei suoi appartamenti privati, in gran pompa, circondato dai suoi segretari. Nella città vi era giubilo e le rondini volavano basse in Piazza San Pietro. Nell’aria, qualcosa di elettrizzante entrava nelle vene e dava la gioia di vivere. Forse il vento di mare e la primavera che mi davano la forza di proseguire il mio lavoro. Firmai, allora, il contratto per affrescare il soffitto della Cappella Sistina e proseguii il lavori per la Tomba del Papa, poiché questo era il suo sogno. Sì è vero, adesso che sono morto voglio dire la verità. Amavo Firenze, ma Roma era la mia attrattiva. D’altronde, per chi non lo è? Ma io volevo renderla ancora più preziosa, perché grande già lo era. Ah, che delizia sentire il ponentino scendere giù dai colli! La campagna che la circonda, con i suoi casolari e il suono melodioso dell’acqua sgorgare dalle sue mille fontane. Le sue chiese e le ville dai bei affreschi! Fu così che mi stabilii a Roma con il ricordo di Firenze. In questa città conobbi la poetessa Vittoria Colonna, marchesa di Pescara. Ma a Roma c’era sempre tanto lavoro e il tempo non restava mai. Quindi attesi agli affreschi della Cappella Paolina, al compimento di Palazzo Farnese, alla sistemazione del Campidoglio e alla Fabbrica di San Pietro. Alla fine giunsi alla mia estrema unzione, cioè alla “Pietà Rondanini”. “L’Incompiuta”, come dissero molti critici, alla morte del maestro. Mi acclamarono come il più grande artista di tutti i tempi e di certo influii su tutta l’arte del secolo. Fui onorato da grandi personaggi e odiato da altri. Gloria e poi Gloria! Ma a che vale la Gloria quando si è soli? Solo non sono stato soltanto io, ma tutti gli altri che mi precedettero. Perché è solo l’artista che non viene capito! È solo lo scienziato che viene deriso! È solo lo studioso che viene ostacolato! È solo il pedagogo che viene oltraggiato! Infine è sola l’umanità, in questo spazio silenzioso e infinito, perché non sente il grido dei suoi figli più virtuosi e diletti e sovente cade i tortuosi sentieri! Addio carissimo amico, forse un giorno ci rivedremo e cerca di far tesoro di quello che ti ho detto! E ricorda, la natura ha sempre ragione sulla vita dell’uomo! Per Giovanni quell’addio risuonò male e non voleva ripeterlo dentro di sé. Perché un artista non muore mai e Michelangelo, Raffaello e Leonardo erano sempre dentro di lui, come degni rappresentanti del Rinascimento Italiano. Giovanni doveva andare avanti, poiché le cose da vedere erano tante. Ed ecco il bellissimo dipinto della “Baccante” di Annibale Carracci. I ritratti della famiglia Medici che furono i Signori di Firenze. Il ritratto di Lorenzo il Magnifico, una delle opere più note del Tiziano. Colui dai modi gentili che aveva nell’animo, stava per avvicinarsi: Il grande ed il divino Rffaello Da Urbino. Infatti, ecco apparire davanti ai suoi occhi, lo stupendo dipinto della “Madonna del Cardellino” che l’artista eseguì, nella sua piena maturità, nel 1506 e prelude di poco il periodo romano. La concezione piramidale torna di frequente in questo periodo, armoniosamente calibrata, dalla presenza di alberi sottili e stilizzati. Mentre Giovanni osservava l’opera nei suoi più minimi particolari, si impose a lui la personalità del grande Raffaello che iniziò a raccontare la sua storia:

“La Madonna del cardellino” di Raffaello

“Nacqui ad Urbino, alle tre di notte, un giorno di Venerdì Santo dell’anno 1483. Presto fui un orfanello, poiché intorno a me c’era distruzione e morte a causa delle febbri coleriche. Mio padre Giovanni Santi mi insegnò i primi elementi della pittura. Poi alla mancanza di affetto sopperì la voglia di fare. Evangelista di Piandimeleto lavorò accanto a me, ma il mio vero maestro fu il Perugino.

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