Una delle mie prime opere è stata “La Pala del Beato Nicola Da Tolentino”, per la chiesa di Sant’Agostino, in Città di Castello. Poi eseguii “L’Incoronazione della Vergine”, una “Crocefissione” e “Lo Sposalizio della Vergine”, per la chiesa di San Francesco nella stessa città.

“Spozalizio della Vergine” di Raffaello

Dopo questi lavori, mi recai a Firenze, per conoscere i grandi maestri dell’epoca come Leonardo e Michelangelo. Fui fortemente attratto da queste personalità e allora la mia attività divenne febbrile. Pur non abbandonando mai la clientela umbra, a Firenze dipinsi delle stupende madonne, per citarne alcune: “La Madonna Connestabile”, “La Madonna del Granduca”, “La Madonna del Belvedere”, “La Madonna D’Orleans” e tante altre cose. Poi inforcai il mio cavallo purosangue e tornai a Urbino, per regolare alcuni conti e sempre con la paura in gola della peste e del colera, perché allora, i tempi erano molto brutti. Presto in primavera fui di nuovo a Firenze, ma qui non trovai lavoro e ripartii quasi subito per Roma. Ebbi sensazioni di notti buie e di giornate splendide. Infatti nella Città Eterna, il Papa Giulio II Della Rovere, mi nominò pittore di Palazzo, con un lauto stipendio e iniziai la decorazione delle Stanze Vaticane. Quando le terminai tutte, le persone influenti, vollero una mia testimonianza che arricchisse le loro dimore. Così fu la volta del banchiere Agostino Chigi, il quale mi commissionò l’affresco chiamato “La Galatea” per la sua bella villa, sul Lungotevere della Lungara. Fui preso allora da un’attività febbrile e cominciai a lavorare anche di notte, perché le committenze erano tante e non riuscivo a soddisfarle tutte e poi come sempre i denari non bastavano mai. La mia vita fu breve, ma se avessi vissuto di più, chissà quante altre cose sarei riuscito a fare? Dal Papa Leone X, succeduto a Giulio II, dopo la morte del Bramante, fui nominato architetto della nuova Fabbrica di San Pietro. Così dovetti circondarmi di collaboratori. Poiché, in genere, io progettavo e gli altri eseguivano le opere. Ed ecco nascere artisti come Giulio Romano, Giovanni da Udine e altri ancora. Morii purtroppo come vissi, logorato da una febbre intensa che mi portò alla mia tomba nel Pantheon, ove ora giaccio circondato dai grandi. Nacqui di Venerdì Santo, infatti e morii nello stesso giorno. Corse subito la leggenda intorno alle mie mirabili imprese, condotte in così poco tempo. Questo sono stato e non voglio dire una parola di più. Spero che la mia utilità sia ricordata dai posteri”.

A Firenze i giorni trascorrevano uno dopo l’altro. La città era troppo bella e piena di capolavori. Giovanni tornò ad alloggiare alla locanda del “Gallo d’oro”, ma la Rosa non c’era, poiché era andata a trascorrere le sue vacanze da una sorella in un paesino della Toscana meridionale chiamato Santa Fiora, come gli dissero. Questo paese è situato in Maremma, alle sorgenti del fiume Fiora, ai piedi del Monte Amiata e famoso per le robbiane. È circondato dai campi di fiori che si estendono fin giù verso il mare. Giovanni visitò il Palazzo Pitti e seguitò a prendere appunti e a tracciare disegni. Quella professione, non l’avrebbe abbandonata mai. Era diventata come l’aria che respirava, cioè la sentiva dentro di sé, nei suoi polmoni e nel sangue. L’Arte quella sublime e meravigliosa Dea che lo riportava ogni giorno nel passato, colloquiando con lui, gli stava indicando la strada da percorrere nel futuro. Ed ecco il Palazzo Pitti, costruito nel 1440 dal famoso architetto Filippo Brunelleschi, su commissione del potente banchiere Luca Pitti, gelosissimo rivale della ricca e superba famiglia  dei Medici. La costruzione fu più volte rimaneggiata. Quando Pitti cadde in rovina, in seguito ad una congiura contro la famiglia medicea, Il Palazzo fu acquistato da Eleonora di Toledo, moglie di Cosimo I. In questo luogo ed esattamente nella Galleria Palatina, Giovanni contemplò i capolavori di Raffaello, tra cui la celebre “Madonna della Seggiola” situata in una cornice tonda e arabescata. La Madonna dalla figura robusta e popolana, come il suo bambino che stringe sul proprio seno, sedendo su di una sedia, guarda severa l’interlocutore. Ed ecco ancora, davanti a lui, il meraviglioso giardino di Boboli con l’anfiteatro seicentesco e in primo piano la Fontana del Carciofo, realizzata da Francesco del Tadda. “Firenze, Firenze, quante cose da osservare, quante cose da vedere!” Diceva Giovanni tra sé, ma il tempo era sempre limitato e lo sentiva dentro di sé, quando scoccava l’ora ritmica dell’orologio del campanile. Giovanni sempre al fine di colmare la sua ansia di sapere, andò in giro per la città, attraversando varie volte il Ponte Vecchio, con il suo fardello sotto il braccio, composto di fogli e matite per scrivere e disegnare. Il Ponte Vecchio è il più antico di Firenze e tra i più famosi del mondo. Fu costruito nel X secolo e distrutto da una piena dell’Arno nel 1333. L’architetto Neri Fioravante lo ricostruì, in pietra, intorno alla metà del 300 e fu riservato ai soli orefici, che vi costruirono le loro casette, dai tetti singolari, con le finestre sul fiume. Era arrivato il momento di visitare la Chiesa del Carmine. L’edificio sacro fu costruito nel 1268, nello stile romanico-gotico e come tutte le chiese fiorentine, venne più volte ampliato. Nell’interno Giovanni ammirò la famosa Cappella Brancacci, costruita per opera del ricco mercante e uomo politico Felice Brancacci. La Cappella è situata in fondo al braccio destro del transetto, poiché la chiesa è a croce latina. In questo luogo vi è un ciclo di affreschi, realizzati con rigide regole prospettiche, da Masolino da Panicale e il suo allievo Masaccio. Quest’ultimo fu il grande innovatore del 400, dando a quelle figure del Cristo e dei Santi un aspetto umano e reale, precorrendo così l’arte del Rinascimento. Ed ecco apparire davanti ai suoi occhi l’affresco di Masolino, cioè “San Pietro che resuscita Tabitha”. Poi il grande capolavoro di Masaccio “La cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre”.

“La cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre” di Masaccio

I due urlano di disperazione e di vergogna mentre camminano. In tutti i riquadri i colori, per lo più terre bruciate, ocra, gialli e rossi-cinabro sembrano quasi metallici. Giovanni aveva sempre il desiderio di vedere, osservare e rivedere, prendendo sempre e ovunque degli appunti dettagliati come se avesse appuntamento con la Storia. Purtroppo il tempo era sempre limitato e gli avvenimenti incalzavano, mentre le cose d’arte da studiare erano tante ed egli era solo. Ma anche se era un uomo solo, aveva un cervello pensante e coordinatore. Giovanni si tormentava, poiché in lui, il desiderio di perfezionarsi era grande e molte volte riunendo i particolari di un’opera, riusciva ad entrare nell’animo e nel pensiero dell’artista, superando lo stesso Vasari. Quindi, ecco Giovanni di fronte alla facciata della chiesa di Santa Maria Novella; vero gioiello dell’arte fiorentina. La bella facciata è in stile romanico-gotico, iniziata dai frati Domenicani Sisto e Ristoro, è stata ultimata da Jacopo Talenti. La suddetta facciata è formata da una precisa spartizione di marmi dicromi. La Parte superiore rinascimentale, ha due volute laterali, ed è stata disegnata dall’architetto Leon Battista Alberti. L’interno, meraviglioso, è a croce egizia ed ha tre navate, separate da pilastri, sostenenti degli archi acuti, con volte a crociera. Verso l’altare i pilastri si avvicinano leggermente, creando l’illusione ottica di maggior profondità. Giovanni rimase estasiato quando osservò la volta e le pareti della Cappella Maggiore, completamente affrescate da Domenico Ghirlandaio e da molti aiuti, fra cui Michelangelo. In quei benedetti luoghi fiorentini, c’era il sapore di storia e di gloria, frammisto a quella fantasmagoria di colori dorati e indorati dalla luce dello splendido sole, che filtrava, ovunque, dalle bifore, trifore e dai magnifici rosoni lavorati e invetriati, dando vita a quelle rare immagini dei Santi. Per cui Giovanni respirava a pieni polmoni veramente l’aria di Firenze e si sentiva appagato da quell’arte così vera, così eccelsa e così schietta. Sentiva dentro di sé la voglia di restare in quei luoghi e di ascoltare il melodioso canto del vento, che scendendo giù dai colli circostanti, accarezzava le colonne, i capitelli, i portali, le finestre, le chiese, i palazzi, le statue e tutto ciò che era di Firenze, poiché quella era la capitale dell’arte. Per lui scrivere e disegnare, nello stesso tempo, era la medesima cosa, proprio come facevano i popoli antichi e in questo modo capiva meglio ed entrava nella personalità dell’artista, cioè nel suo profondo ed è proprio quest’ultimo l’essenza, l’anima, il crogiolo, la vita, il cuore e il polmone pulsante da cui scaturisce la manifestazione artistica. Per cui il critico o l’esperto che riesce ad entrare in questa meravigliosa camera, ha poi la chiave per accedere nell’ispirazione ed in tutte le altre diramazioni, come nella famosa Catarsi, che significa purificazione ed innovazione. Per l’esperto, la conoscenza dell’essenza della personalità dell’artista, è la prima pietra miliare e la seconda è il metodo di comparazione. Dopo tutti questi sentimenti verso quelle opere d’arte, sembrava che quest’ultime lo chiamassero presso di loro, dicendo di rimanere ancora, per gustare la loro magnificenza, ma egli sentiva già da tempo dentro di sé e nelle sue orecchie, come il ritmo di un tamburo, che lo portava a marciare in direzione di una meta stabilita. Giunse così in Piazza San Lorenzo, proprio di fronte alla chiesa omonima. Era mattino e il sole batteva forte nel periodo estivo, sulla facciata fatta di mattoni grezzi. Infatti, eravamo verso la fine di agosto e quei benedetti raggi solari, che facevano maturare le messi già rigogliose attorno, sembravano fari che splendevano di luce propria illuminando tutte le cose. All’inizio della scalinata vi era una carrozza scura, in sosta, trainata da due cavalli marroni, mentre un cocchiere a cassetta, vestito di scuro e con bombetta in capo, sudando, fischierellava una canzone, asciugandosi il sudore. “Signorino, vuole fare un giro per Firenze?” Chiese il cocchiere a Giovanni, smettendo di fischiare. La costruzione  sacra, veramente antica, fu costruita nel 393 e rimaneggiata in stile romanico nel XI secolo. Poi ancora ristrutturata dal Brunelleschi su commissione dei Medici. Il complesso architettonico è costituito da una loggia, sormontante la cupola della crociera, dal cupolone seicentesco della Cappella dei Principi, dal piccolo campanile e dalla cupola michelangiolesca della Sagrestia Nuova, con il pregevole lanternino.

Nell’interno vi è un chiosco in stile brunelleschiano, con arcate poggianti su delle colonne ioniche, che a sua volta sorreggono un loggiato a tetto spiovente e con colonne più esili. Lo schema della Basilica è quello paleocristiano a tre navate, con transetto e soffitto a cassettoni. Il Brunelleschi adoperando la pietra serena, nelle parti interne, ha creato un sontuoso capolavoro del Cinquecento Fiorentino. I passi di Giovanni presto echeggiarono nel luogo più sontuoso e ricco, cioè nella Cappella dei Medici o dei Principi.

Questa si presenta con pianta ottagonale, culminante con una grande e slanciatissima cupola. Le pareti e il pavimento sono rivestiti da preziosi marmi policromi e da pietre dure. Nel perimetro ci sono i monumentali sepolcri dei Granduchi. Le due statue fatte di bronzo dorato, furono eseguite dal Tacca. Alla base delle pareti ci sono sedici stemmi di città, appartenute al Granducato dei Medici.  Quella fantasmagoria di colori e d’oro, entrò come una dolce melodia dentro di lui e nella sua anima, rendendolo euforico come in un dolce e delizioso valzer. Giovanni entrò nella Sagrestia Nuova, quasi in punta di piedi e sentendo sulla pelle la frescura dell’interno, protetto dai raggi solari. In questo posto, il grande Michelangelo, in una simbiosi veramente mirabile, fuse architettura e scultura. Il Sepolcro di Giuliano Nemours, fu realizzato ponendo sul sarcofago la statua del Giorno, con il volto non finito e quella della Notte con espressione malinconica, mentre più in alto, entro una nicchia, vestito da guerriero, c’è la scultura del Principe. Il Sepolcro di Lorenzo Duca d’Urbino, il grande artista lo concepì come il precedente, ponendo, sul sarcofago la statua dell’Aurora, con il suo bel corpo e dal volto segnato da un’espressione drammatica e quella del Crepuscolo, con il volto solcato dal dolore della vita.

Lo aspettava la celebre Galleria dell’Accademia. Quest’ultima fu fondata nel 1784 per iniziativa del Granduca Pietro Leopoldo. Nella “Tribuna” eretta da Emilio De Fabris, Giovanni disegnò e osservò molte volte il celebre David di Michelangelo. Questa statua è alta oltre i quattro metri e fu costruita dal Buonarroti, nel 1504, facendo uso del marmo bianco di Carrara, già “sconciato” da un precedente artista. Il personaggio, dal volto ben tagliato e fiero e dal corpo forte e snello, stringente nella mano un sasso, rappresenta l’eroe pieno di decisione e volontà. Ed ancora, ai lati, i quattro prigioni o schiavi, precedentemente destinati alla tomba del Papa Giulio II. Ora era la volta di visitare la Casa del Buonarroti. Intanto si era fatto tardi, poiché Giovanni aveva indugiato, come di consueto, a disegnare e a prendere appunti e a meditare sulle sue probabili pubblicazioni. Quando fu fuori dalla Galleria, il sole stava tramontando dietro i tetti di Firenze, oscurandoli e contornandoli di un alone rosa e rosso-porpora. I lampionai cominciavano ad accendere i lampioni ed egli affrettò il passo per non fare tardi. Quando arrivò alla Casa del Buonarroti, la trovò chiusa e allora suonò una campana, posta vicino all’entrata. Aprì la porta scura un servo secco e molto alto. “Il museo privato è chiuso” gli disse, facendo capolino. “Il padrone è fuori Firenze”. “Ma io sono di passaggio”, rispose Giovanni allungandogli alcuni denari. “Se non lo vedo adesso, non avrò più l’occasione di ammirarlo” proseguì a dire Giovanni. “Il Signore è veramente fuori città” disse l’uomo intascando i denari. “Comunque si accomodi ugualmente”. Con queste parole il servo fece accomodare Giovanni e andò poi ad accendere alcuni lumi. “Così può vedere bene” soggiunse con voce alquanto dimessa. “Da dove viene?” Gli chiese. “Dal Veneto” rispose Giovanni. “Lontano eh!” esclamò il servo. “Qui vengono da tutte le parti del mondo”. “Capirà, non possiamo sempre aprire a tutti, ma facciamo spesso del nostro meglio”. “La gente è desiderosa di vedere e di osservare”. Intanto si sentiva l’odore del cucinato proveniente da un androne lontano. “Lei può proseguire da solo, io continuo le mie faccende”. “Quando avrà finito, mi faccia un cenno, poiché dovrò sprangare la porta”. “Qui è pieno di tesori”. “Tutta l’Italia è piena di tesori”. Rispose Giovanni, incamminandosi, mentre il servo si allontanava. Ecco davanti a lui, attaccato ad una parete, il famoso pannello in marmo rappresentante “Il Combattimento dei Centauri e dei Lapiti”. Quest’opera giovanile di Michelangelo, come del resto sono tutte le opere nella casa, fu eseguita nel 1492 circa. È la prima opera rappresentante il non-finito e prelude, con la mischia di ignudi, alla grande stagione del Buonarroti.

“Combattimento dei Centauri e dei Lapiti” di Michelangelo

Illuminata da una lampada tremolante, vide la “Madonna della Scala”. Chiamata così per quella scalinata irta alle spalle della Madonna. Qui l’artista già consono delle sue particolari doti espressive, nello “sticciato” risente ancora delle influenze donatelliane. Ormai a Firenze Giovanni aveva visto molte cose e in lui era sempre vivo il desiderio di recarsi a Siena, per conoscere la Scuola Senese e ad Assisi, per conoscere Giotto e quindi a Roma. L’indomani alla locanda fece il conto dei suoi averi e vide che le sue misere ricchezze, stavano assottigliandosi ancora. Accanto al letto aveva un tavolo e una sedia. Proprio accanto ad una finestra. Tirò fuori dalla sua borsa un quaderno e da un sacchetto pochi denari. Mise tutto sul tavolo e sedendosi cominciò a scrivere dei conti di previsione. Presto si accorse che i soldi non bastavano per tutto. Come fare? Guardò fuori, era una giornata grigia. Non si perse d’animo e cominciò a scrivere una lunga lettera a suo padre. Poi pensò bene di lasciare subito la locanda e dirigersi, a piedi, verso Siena. In fin dei conti aveva soltanto un fagotto, una borsa e un robusto bastone. Non erano cose pesanti e poteva camminare con speditezza. Fuori città, anche se il tempo era brutto, le verdi colline toscane erano molto belle. La Cassia, polverosa, contornata di alberi, aveva il suo fascino romantico. Poi ogni tanto passavano squadroni di cavalleria, che si allontanavano, scomparendo lontano nella campagna circostante e facendo dondolare le sciabole, con il loro suono metallico. Giovanni, fischierellando un motivetto, affrettò il passo. Spesso entrava in chiesa per pregare. Quando invece incontrava un cascinale con delle galline svolazzanti intorno e sentiva il muggire delle mucche, allora chiedeva un uovo e un po’ di latte, in cambio di pochi spiccioli. Ed ecco, dopo qualche giorno di marcia, apparirgli nel mattino la città di Siena, in tutto il suo splendore. Era lì come era stata per migliaia di anni: con le sue mura, le sue chiese, i suoi campanili, i suoi palazzi, le sue torri. Sembrava una nave, in mezzo ad un mare fantasioso di stupende e verdi colline, ove ogni tanto appariva qualche pino solitario e una fila armoniosa di dolci cipressi maremmani. La città brillava davanti agli occhi di Giovanni come un gioiello prezioso in uno scrigno dalle pareti coperte di velluto. Si diresse, subito, in via della Sapienza ed esattamente all’Istituto di Belle Arti, ove, come aveva saputo, l’Abate De Angelis professore di quell’Istituto aveva riunito alcune preziose tavole della Pittura Primitiva Senese. Il lavoro era stato poi perfezionato dal Cavaliere Alessandro Saracini e dal critico d’arte Carlo Pini. Lo scopo di Giovanni era quello di studiare le origini dei Primitivi e quindi avviarsi con attenzione alla conoscenza dei Trecentisti e dei Quattrocentisti Senesi, che rappresentano il crogiolo, il famoso trampolino di lancio e l’anello di congiunzione verso il Rinascimento Italiano. In effetti non tanto sappiamo sulla pittura toscana del Dodicesimo secolo. Abbiamo solo delle Croci, delle quali la più famosa è quella di Alberto Sotio, nel Duomo di Spoleto. È di Scuola Umbro-Senese-Aretina, datata 1187. Quest’ultima si ricollega a quella del Maestro di Tressa, nel Museo dell’Opera del Duomo di Siena e detta anche “Madonna dagli occhi grossi”. Quindi di quell’epoca, non abbiamo affreschi e le opere citate, per la preziosità dei colori, nonché per la loro caratteristica e l’accentuata linearità, sono vicine alla Pittura Bizantina. Comunque nella pittura episodica, posta al lato del “Redentore Benedicente”, permeata di popolare, aulica e ricercata narrativa, il pittore riesce a staccarsi dalla tradizione, per costituire le fondamenta di quello che sarà, poi, la Pittura Senese degli anni a venire. Il primo e il più grande pittore operante in città, nella seconda metà del XIII secolo, è stato Guido da Siena.

Guido seppe fondere la Pittura Bizantina con quella Toscana e Fiorentina, appresa attraverso il maestro Coppo di Marcovaldo, prigioniero fiorentino a Siena, dopo la battaglia di Monteaperti del 1260 e dal pittore Giunta Pisano. Al tutto aggiunse la sua creatività fantastica e personale, con i suoi estrosi colori su fondo oro, che fanno di Guido il maestro del grande Duccio da Buoninsegna. Questo pensava Giovanni in quelle sale dell’Istituto, mentre osservava quei quadri. Voleva cogliere e interpretare l’ispirazione degli artisti, cioè farla sua. Infatti, l’ispirazione del critico, secondo lui, doveva essere sagace e intelligente e correre di pari passo con quella dell’artista, autore dell’opera. Per questo, egli, come aveva sempre fatto, si soffermava di fronte ad un quadro e attentamente lo esaminava in ogni più minimo particolare: sia nel disegno, nel colore e nella sua scenografia, per poi, trarre una conclusione finale e paragonare il tutto con la pittura coeva. Il fondamento del proprio lavoro, era soprattutto quello di entrare, al massimo, entro la personalità dell’artista, poiché era da qui, che rilevava tutte le verità possibili. Quindi, ecco Giovanni di fronte alla tavola: “La Madonna dei Francescani”, del grande Duccio. Ancora esaminò i Ducceschi sino ad arrivare alla famosa “Madonna con bambino” di Simone Martini. Infatti un altro grande artista senese fu Simone Martini. Questi assieme a Duccio fece suo il linguaggio Gotico, sceso da oltre le alpi, adattandolo, con il proprio gusto personale, a quello della ricca società del suo tempo. Giovanni, il quel luogo pieno di quadri, per lo più Madonne dal fondo oro, sentì dentro di sé un profondo misticismo. Gli parve di essere dentro una grande cattedrale, con le volte molto alte. Sentì la gente pregare sommessamente a lume di candela. Il volto di quelle Madonne, assomigliava a tante pure donne toscane dell’epoca: delicate, raffinate, mistiche, auliche ed eloquenti. Anche Giovanni si mise a pregare. Il posto era solitario. C’era poca gente, per lo più proveniente dal contado.

Parte II

Mentre gli italiani furono assistiti dalla buona sorte in pianura, sulle colline gli austriaci ebbero la meglio. Ma la battaglia come tutte le battaglie, non si sarebbe fermata lì. Il generale austriaco Clam assalì ripetutamente, con i suoi uomini, gli Universitari comandati dal Ceccarini e i Faentini comandati dal Masi. Quest’ultimi resistettero fino all’ultimo, anche se le brigate Wholgemuth e Strassoldo rinforzarono gli austriaci. Sebbene i volontari non erano ben addestrati al combattimento,  ad ondate, assalivano ripetutamente gridando al nemico. Ora Giovanni, alla sua destra, vedeva il comandante Ceccarini che in testa ai giovani ragazzi andava incontro al nemico, respingendolo. “Baionetta!” “Baionetta!” Gridava quest’ultimo, mentre al suo fianco un volontario sventolava, gridando, la bandiera italiana. “Viva l’Italia e morte all’invasore!” Gridavano in coro. “Viva l’Italia!” “Viva l’Italia!” Ma gli assalitori erano sempre più in numero rilevante e ad ogni ora, aumentavano smisuratamente. Finalmente Massimo D’Azeglio ebbe il rinforzo di due compagnie svizzere che erano in riserva e con queste attaccò il nemico, sempre, alla baionetta. Purtroppo il generale Culoz mise delle batterie sulla collina e tempestò con i colpi i fianchi delle truppe di Massimo D’Azeglio. Quest’ultimo dovette retrocedere, inseguito dai tirolesi, sino alle barricate. Giovanni vide l’inseguimento e assieme ad altri italiani si gettò con la baionetta al contrattacco, in difesa delle truppe svizzere. Quest’ultime si ripresero e un loro plotone a pochi passi dal nemico, retrocesse e fece fuoco. Rimase ucciso il colonnello austriaco Copal ed un altro ufficiale. A questo punto il generale Durando mandò all’attacco tutta la riserva, compreso lo squadrone dei carabinieri. Che poteva fare, quando tutto il mondo lo aveva abbandonato di fronte all’Austria? Giocava l’ultima carta che il destino gli aveva permesso. Giocava l’ultima carta che la storia gli aveva permesso. Perché gli eventi storici, sono delineati dal pensiero umano ed ogni avvenimento fa parte di una catena di altri avvenimenti, che formano la storia dei destini dell’intera umanità. Ed anche il Cavalcaselle come gli altri, era abbandonato in quella buca, con le latrine vicino e la morte in agguato. Mentre nei saloni di tutta l’Europa ben guarniti di lampadari e opere d’arte l’Austria, la Francia e l’Inghilterra tra danze e musica, celebravano i loro rapporti diplomatici. I stracci, come dice il popolo e voce di popolo dice sempre la verità, andavano sempre in aria! Proprio in quel momento, il Cavalcaselle aveva una visione fantasmagorica di tutto ciò. La rabbia lo tormentava, poiché per lui l’arte era una cosa molto grande e gli dispiaceva moltissimo, dover morire proprio nel mese in cui le margherite spuntavano a miriadi nei prati, gli alberi erano in fiore per la vitalità e l’energia che dava loro il sole. Le notti poi erano fresche e tra i cespugli comparivano le piccole lucciole. Pensava ogni giorno nella paura di morire, all’arte, alla grande sua arte, che anelava di rivedere. Insomma in lui c’era la speranza del domani, del grande domani, agli albori della Storia dell’Arte, poiché lui era Giovan Battista Cavalcaselle e apparteneva alle grandi generazioni degli uomini europei. Ma in quel giorno, le speranze di molti italiani crollarono in una buca piena di fango. Il fedel maresciallo battendo il pugno sul tavolo disse: “No! Vicenza deve capitolare e con essa tutte le città venete!” Mandò quindi Culoz, Clam e Strassoldo, con 12.000 uomini e varie artiglierie, all’attacco. Per quei pochi uomini che difendevano Vicenza, compreso il Cavalcaselle, fu il più totale inferno. Cominciò prima l’artiglieria a martellare ogni metro quadro e poi le ondate degli uomini, all’attacco, si susseguirono una dietro l’altra. Dopo dieci ore di accanita resistenza, alle 9 di sera, le posizioni delle colline cadevano in mano del nemico. A questo punto le artiglierie austriache, dominando dall’alto Vicenza, cominciarono a sparare. Ora nel povero cervello di Giovanni c’era l’inferno. “O Signore che siete nel grande Regno dei Cieli, aiutateci.” “O mio Dio, fateci morire con dignità” diceva. Per fortuna ancora una volta, qualcuno disse basta a quell’orrore. Questo era il generale Durando, che vistosi ormai circondato da numerosissime forze da tutte le parti, capitolava, per salvare la vita a quei prodi cittadini e soldati. Il nemico non riuscì a entrare nei sobborghi, ma le perdite furono ugualmente molto gravi da ambo le parti. Gli italiani ebbero quasi 1000 morti e il doppio gli austriaci. Radetzky scriveva all’imperatore, che quelli erano giorni di gloria per le armi imperiali. In quella stessa notte il Durando firmava la resa. Quando la carrozza del generale italiano, passò per i sobborghi della città, diretta lontano, molti cittadini la circondarono e lo insultarono. “Sei un vigliacco!” Gridarono in coro. “Sì, Vigliacco!” Dissero altri. “Vigliacco!” “Vigliacco!” Molti lanciarono anche dei sassi e a stento la scorta riuscì ad allontanare la folla. Egli allora abbassò le tendine e pianse, poiché sapeva di aver ben operato, salvando la vita a molte persone, con una resa ben dignitosa. Purtroppo era stato abbandonato da tutti e Carlo Alberto, era lontano. Poco distante anche il Cavalcaselle piangeva. Se i generali italiani fossero stati di un carattere più forte, avrebbero sicuramente evitato quella disfatta. Il piano era assai semplice, bastava che l’esercito sardo, dopo la vittoria a Goito, varcasse l’Adige e inseguisse il nemico fino a Vicenza, ove Durando attaccava con il suo esercito. Questo piano, all’Alto Comando Italiano, apparve troppo rischioso e per questo, non fu mai attuato. E intanto dal lato della strada, il Cavalcaselle seguiva con gli occhi lucidi per il pianto, quella lunga linea di uomini in marcia che si ritirava. Alcuni portavano i feriti ed altri le armi in spalla. Ora Giovanni pensava alla sua patria e all’arte. Vedeva come una sequenza di colori pregiati e sentiva, dentro di sé, il profumo di cose belle che poteva perdere, poiché temeva, che il nemico potesse impadronirsi di molta arte italiana, come bottino di guerra. Vide la scura carrozza del generale Durando passare in fretta tra le due linee di uomini in marcia, lasciando gialle nuvole di polvere. Quella, per lui, era la sua ultima speranza che volava via. La seguì con gli occhi finché divenne un puntino scuro e scomparve in lontananza. E intanto, dentro la carrozza, il generale italiano, pensava a Carlo Alberto che lo aveva abbandonato. Lo vedeva in quel momento, sopra un cavallo bianco, galoppare nell’azzurro del cielo, mentre il suo mantello svolazzava nel vento. Ma Carlo Alberto, con il suo esercito, si presentava sotto le mura di Verona, troppo tardi, quando Radetzky, con la sua fanfara in testa e 8.000 uomini, vi entrava dalla parte opposta, celebrando la vittoria sul generale Durando. Dopo Vicenza, una per una, cadevano tutte le città venete. Perfino Mestre, a 2 chilometri da Marghera, sul lembo della Laguna, cadeva nelle mani del nemico. Rimaneva solo Venezia libera. Protetta dalle sue fortezze sulla terraferma, mentre le flotte alleate vigilavano su di essa, dalla parte del mare. Quel giorno a Vicenza, durante le ultime ore, mentre Giovanni era triste al lato della strada, una mano toccò la sua spalla. “Tenente è desiderato al comando”. Gli disse un soldato con il fucile a tracollo. Nel frattempo, in una tenda da campo, il generale Sanfermo litigava con un capitano. “Cavalcaselle doveva stare qui avevo detto!” Diceva concitatamente. “Dov’è ora!” “Ho detto dov’è ora!” “L’ho mandato a chiamare”. “Fra non molto sarà qui”. Rispose l’altro. Infatti Giovanni dopo pochi istanti entrò nella tenda, rischiarata da una lampada, poiché fuori, nel primo mattino, era ancora buio. “Tenente” disse il generale, guardando Giovanni. “Qui facciamo purtroppo i bagagli”. “Lei verrà con me allo Stato Maggiore a Venezia”.

“La Madonna con Bambino e Santi Giovanni Battista, Giovanni Evangelista, Francesco, Maria Maddalena” di Guido da Siena.

La Guardia Civica Veneziana assieme alla popolazione scrisse pagine di gloria. In quei giorni l’Assemblea di Venezia decretava quanto segue: “Obbedendo alla suprema necessità che l’Italia intera sia liberata dallo straniero ed allo scopo di continuare la Guerra d’Indipendenza colla maggiore efficacia possibile; come Veneziani in nome  e per l’interesse di Venezia e come Italiani per l’interesse di tutta la Nazione, votiamo l’immediata fusione della città e provincia di Venezia negli Stati Sardi, con la Lombardia, colla quale in ogni caso intendiamo di restare perpetuamente incorporati, servendone i destini politici unitamente alle altre provincie venete. Poi la stessa Assemblea elesse il Governo che fu composto da Castelli, Paleocapa, Camerata, Martinengo, Cavedalis e Reali. Veniva escluso Manin, poiché quest’ultimo rifiutò di prendervi parte. L’Assemblea si sciolse poiché aveva adempiuto al suo mandato. Il nuovo Governo Veneziano inviava una deputazione al Re di Piemonte, per fargli notificare il voto espresso dall’Assemblea Veneziana, ma questi accolse il fatto freddamente, scaricando tutto alle Camere di Torino. Nel frattempo il maresciallo Radetzky rafforzava ancora il morale delle sue truppe e Venezia si preparava a combattere, iniziando così il suo straziante calvario. In città erano arrivati tre battaglioni piemontesi, che il governo sardo pose sotto il comando del generale Alberto La Marmora. Governo e cittadini attendevano il voto del Parlamento e l’avvenimento delle sorti. L’Austria concentrava le sue forze nel Lombardo-Veneto. Nell’esercito sardo di giorno in giorno veniva meno la disciplina. Una divisione lombarda aveva affiancato quest’ultimo, ma era mediocremente armata. Anche alcune compagnie di volontari lo avevano raggiunto. Purtroppo quest’ultimi non erano contenti di stare assieme a delle truppe regolari. La stampa, poi, aveva preso a parlar male di Carlo Alberto. Per cui si erano creati forti dissensi tra l’esercito piemontese e quello lombardo. I generali italiani continuavano a tenere queste truppe mal disseminate, tra Rivoli e Mantova. Una lunga ed esile linea, contrastata dal poderoso esercito austriaco ricco di artiglieria. Quella linea poteva essere sfondata da un momento all’altro e le divisioni italiane sconfitte separatamente. Fu così che il generale austriaco Liechtenstein con 5000 soldati passò il Po ed occupò Ferrara. Purtroppo quella linea sinuosa e flessibile, che passava tra colline e prati in fiore e qualche volta si arrestava, per far posto a qualche accampamento, ma che poi si riprendeva, aveva fatto gola allo straniero, per la sua precaria consistenza. Poi il generale austriaco ripassò il Po e tornò nella sua prima posizione, dopo aver fatto vettovagliare i suoi uomini dal municipio di Ferrara. Questo fatto gettò il panico nelle vicine popolazioni, preoccupate di una nuova restaurazione dei principati. Carlo Alberto, allora, spedì un forte distaccamento, sul posto, agli ordini del generale Bava. Le pattuglie mandate in esplorazione, riferirono a quest’ultimo le decisioni prese dal nemico e quindi Bava pensò bene di attaccare, con impeto, la posizione di Governolo, presidiata dagli austriaci. Cruento fu il combattimento e molti austriaci furono fatti prigionieri. In quella giornata venivano catturati 350 uomini fra cui 9 ufficiali, il maggiore Rukavinà, una bandiera, due cannoni, varie salmerie e degli attrezzi da guerra. Non fu un’impresa che giovò al nostro esercito, perché a difendere quel punto fu lasciata una brigata e questa non poteva essere impiegata durante la battaglia decisiva e inoltre prolungava sempre più l’esile linea dei piemontesi. Questa linea si estendeva per circa 120 chilometri da Rivoli a Mantova. Il centro era situato nella pianura di Roverbella. L’ala sinistra era comandata dal generale De Sonnaz ed esattamente da Somma a Rivoli, mentre quella destra era estesa sulle due rive del Mincio sino sotto Mantova. Le truppe erano ripartite in questa maniera: 15.000 uomini tra Sommacampagna e Rivoli, 4000 tra Villafranca e Castelbelforte, 10.000 a Marmirolo e Villanova, 20.000 a Mantova e 10.000 a Governolo. In tutto erano 60.000 uomini, ma non bene collegati, in parte divisi da un fiume e quindi in cattiva posizione per appoggiarsi scambievolmente tra loro. L’esercito del maresciallo Radetzky superiore per numero e mezzi, concentrato come una belva, in una posizione poco estesa, aspettava di scagliarsi contro un punto prescelto. Per questo, una sinfonia da battaglia decisiva, permeava i cervelli dei capi austriaci. La vecchia volpe pensava di separare l’ala sinistra italiana, comandata dal generale De Sonnaz. Questa manovra era già stata tentata a Goito. Voleva gettarla sull’Adige e quindi allontanarla dal Peschiera. Poteva così marciare, con il grosso dell’esercito verso il centro e la destra degli italiani, che rimanevano così schiacciati, tra Mantova e il Po. Il tenente-maresciallo Thurn con circa 12.000 uomini e parecchia artiglieria, si dirigeva da Roveredo dove era accampato, dividendo le sue truppe in due colonne, verso la Corona e Rivoli. Soltanto un battaglione di soldati italiani difendeva la Corona. Questi uomini si batterono valorosamente, ma poi furono sopraffatti dal numero soverchiante del nemico. Gli austriaci sparavano con i cannoni a mitraglia e attaccavano ripetutamente e a ondate, con la baionetta. Si sentivano le grida, gli spari e il rombo assordante dei cannoni che sparavano. La polvere che si levava dal suolo, frammista a quella degli spari, invadeva la scena, fatta di uomini all’attacco dietro le loro bandiere, mentre si udiva il suono quasi sinistro, delle trombe e dei tamburi che scandivano il tempo. Insomma era un vero inferno, o meglio l’inferno nell’inferno, perché ovunque trionfava la morte. Purtroppo è la conclusione del sangue versato, la nascita dello spirito di un popolo, che forma la Nazione e da questa lo Stato. Un battaglione veniva mandato in soccorso dei soldati che difendevano la Corona e questi poterono ritirarsi, ordinatamente a Rivoli. Le truppe austriache, riunitesi, iniziarono l’attacco di quest’ultima posizione. Allora il generale De Sonnaz con altre truppe, corse in aiuto dei suoi. Benché superiore di uomini ed artiglieria, il nemico fu respinto a Caprino e a Incanale. In quella zona, nel 1796, contro lo stesso nemico, Napoleone vinse i corpi di Würmser e l’anno dopo l’Alvinzi. Il generale italiano non si illuse e pensò bene di ritirarsi a Sandra, poiché il giorno seguente, poteva essere attaccato da forze superiori e raggirato dal lato destro. Il fedel maresciallo, dopo aver fatto controllare la posizione dei sardi dal barone Hess, assumeva direttamente la direzione del suo esercito. Un forte uragano imperversava nella zona, con lampi da far paura e tuoni da far tremare la terra. Sembrava che il cielo si fosse squarciato riversando sulla terra ancora una volta fiumi di acqua. Ciononostante l’esercito austriaco, forte di 40.000 uomini e tanta artiglieria, era puntuale di fronte ai nostri a Sona, a Sommacampagna e a Custoza. Gli italiani erano soltanto in 8000, comandati dal generale Broglia.

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