Lo vedeva nel cielo nuvoloso e lo sentiva nel suo animo malato. Anche lui come molti italiani, si sentiva abbandonato più che mai, poiché quella morsa di assalitori, si era fatta mortale. La sentiva intorno al suo collo e la udiva nel fischio dannato delle granate sparate nella Laguna, dai cannoni nemici. La vedeva nel rosso sangue delle coccarde di quei giovani soldati, votati alla morte, che la portavano come un fiore, appena colto, in un campo d’estate. Infine, la vedeva in quel rosso vessillo, che gli sembrava tanto grande e immenso come un cimitero, tanto che gli parve di sentire il rumore dello spiegazzare della stoffa percossa dal vento, che diceva a lui: “Morire per Venezia!” “Morire per Venezia!” A volte quella bandiera gli appariva come una mongolfiera, che si alzava verso l’alto, a segnare il grande Sacrario Veneziano. Ma la sua compagna inglese era ancora lì, vicino a lui, a curare i malati e i feriti e questo lo confortava. Anzi in quel momento era la sua unica speranza. Come l’unico contatto con il mondo esterno. Per  questo, in quei giorni, era felice di stringerle la mano e di dormire tutte le notti accanto a lei. Sentiva il suo respiro e la sua voce parlare di libertà. Accarezzava il suo piccolo corpo snello. Passeggiava per le vie di Venezia, quando si poteva. Purtroppo la realtà era un’altra e il di Novara molto grande. Toglieva la speranza al giovane e debole esercito veneziano, di affrontare il nemico in una battaglia campale. Quel sogno svaniva. Manin ordinò all’esercito di sostenere l’assedio. Il generale Pepe, quindi, disponeva nei vari settori di difesa la divisione di Chioggia e la brigata di Marghera. La cavalleria e l’artiglieria da campagna le spostò al Lido e preparò delle forti barricate. Altre infauste notizie giunsero a Venezia, minando ancora l’animo di Giovanni e Mo. I fatti clamorosi di Brescia e Casale. Queste due città insorsero, ma l’insurrezione fu spenta nel sangue. In quei giorni Giovanni aveva comprato un giornale di Torino, ove aveva appreso i particolari. Altre notizie di fatti più feroci erano arrivate allo Stato Maggiore a Venezia, di cui lui faceva parte, come aiutante del generale Sanfermo. Egli era stato assegnato a una sezione speciale, dei servizi informativi segreti di collegamento. Ma in quel momento non era entrata ancora del tutto in azione. A causa di quelle notizie, il suo animo era inquieto, faceva brutti sogni e durante la notte si svegliava all’improvviso, con un grido, svegliando la sua compagna che durante il giorno aveva molto da fare. Sembrava che il buon Dio avesse abbandonato del tutto l’Italia. Giovanni pensava spesso e sognava quelle atroci scene nel fuoco. Sempre come un incubo, vedeva Carlo Alberto disarcionato dal suo bianco cavallo. Così recitava l’articolista: “Gli eroici bresciani hanno respinto nei giorni passati il vecchio Nugent e i suoi 1000 uomini e nelle barricate uomini e donne hanno innalzato lo stendardo tricolore. Ma il feroce Haynau detto “il carnefice”, ha ordinato un tremendo bombardamento e subito dopo ondate di assalitori, hanno invaso la città, con l’ordine di non fare nessun prigioniero e di appiccare il fuoco ovunque. Ora ogni casa viene espugnata e le donne violentate, prima di essere uccise. A Brescia ci sono morti da tutte le parti. Le fucilazioni e le impiccagioni avvengono di continuo. Gli austriaci hanno anche assalito un collegio di giovani ragazzi e per quei soldati è stato facile uccidere il direttore, la sua famiglia e molti di essi. Sembra che il carnefice stia entrando in città, sopra un bianco cavallo, seguito dai suoi, con la lunga baionetta innestata. Per i giorni che verranno, si prevedono sanzioni e altre cose orrende.” Gli ordini degli ufficiali, in lingua tedesca, echeggiavano ovunque. A quei tempi per molti italiani, Carlo Alberto, la sua famiglia e il suo esercito, erano l’unica speranza, quindi anche la pensava così. Si chiedeva spesso tra sé: “Che cosa fa il Re?” “Dov’è in questo momento?” “Perché non interviene?” Queste domande erano corali. Assomigliavano a quelle dei figli che implorano aiuto ai propri genitori e si aspettano da questi chi sa che cosa. Ma la storia non può attendere e andava avanti. Quindi Manin il 4 aprile scriveva ai Gabinetti dei Ministeri di Londra e Parigi, descrivendo le condizioni in cui si trovava Venezia e chiedendo il loro intervento, per fronteggiare l’Austria. Il 22 dello stesso mese, giunse la risposta di rifiuto e la città venne abbandonata al suo destino. Fu implorata, ancora una volta, la carità cittadina, dato che i dodici milioni dell’ultimo prestito erano finiti e i cittadini intervennero con doni e offerte. Questo non bastava e allora si ricorse a un nuovo prestito. Poiché Venezia non aveva mezzi per vettovagliarsi, (in quanto era circondata per terra e per mare) il Governo volle sapere quanti viveri rimanevano, sia nei depositi cittadini che in quelli privati. La Commissione Annonaria, appositamente istituita e aiutata dai cittadini, poté prendere questa nota: “Si calcolò che con la massima economia, la città poteva resistere ancora per quattro mesi. Poiché i mulini erano insufficienti, si badò a fornire a ogni famiglia le macine a mano”. Quasi 600 cannoni, meno quelli della marina, erano ripartiti nei forti della Laguna. Si prevedevano attacchi del nemico a Marghera, a Brondolo e al Lido, ma difficilmente dal mare, poiché l’esercito austriaco non era preparato a una tale impresa. Il Forte di Marghera assomigliava a una grossa coda di rondine, ed era costituito da fortificazioni minori, da palizzate e da un profondo fossato. Questo sistema, veniva difeso da 120 pezzi di artiglieria e da 12 mortai. La guarnigione contava circa 2000 uomini comandati dal generale Rizzardi. Tutto era stato allagato nelle zone limitrofe, affinché il nemico non potesse prendervi posizione. Comunque, per gli assediati, costituiva soltanto una vasta testa di ponte, che poteva benissimo essere abbandonata, poiché a difesa della città, nella Laguna vi erano altri forti. Si cercò anche di mettere su una piccola flotta, per opera del luogotenente di vascello Luigi Fincati. Per cui 18 grossi trabaccoli, vennero convertiti, in poco tempo, in navi da guerra, armandoli, ciascuno con un grosso cannone da 36, montato su di un perno centrale, in modo che il pezzo poteva girare per 360 gradi. Questa flottiglia chiamata “Leggera”, si unì a Malamocco, al resto della flotta, che comandata dal capitano di corvetta Achille Bucchia, era costituita da 3 corvette con 20 cannoni ciascuna, da 3 brick con 16 cannoni e da un vecchio vapore, il “Pio XI”. Purtroppo queste navi, non erano adatte a fronteggiare quelle austriache, molto numerose e più moderne ed equipaggiate. Ci furono tentativi di ingaggiare battaglia, ma senza esito. Arrivò la grande festa di San Marco Evangelista, Giovanni e Mo si recarono nella grande Basilica, per celebrare e innalzare gli inni sacri, assieme a quel popolo, al Dio dei Trionfi e della Pace. Giovanni, accanto alla sua compagna, sentì l’eco di quelle numerose preghiere, poiché vi era molta folla, sia dentro sia fuori quel luogo sacro. Spesso quelle voci erano accompagnate dal bagliore e dal rumore del tuono lontano dei cannoni. Quel giorno era bello, il sole risplendeva alto nel cielo. Giovanni mentre sentiva quegli inni, gli palpitò forte il cuore, come quello dei cittadini veneziani riuniti nella Basilica e vide, mentre osservava di profilo la sua compagna, che lei pregava, accoratamente, per quella causa. Dopo la solenne funzione, Manin assieme al generale Guglielmo Pepe, ai ministri e ai notabili, passò in rivista gli uomini della Guardia Nazionale e della Guarnigione, che vestiti in gran pompa, con la bandiera tricolore, erano schierati sulla grande Piazza. Poi iniziò il discorso e le sue parole solenni, echeggiarono, rivolte ai cittadini: “Popolo Veneziano! Soldati di tutte le armi! Noi abbiamo sperato e lottato ogni giorno e ogni ora! Noi vinceremo! Viva San Marco, nostro patrono e protettore! Queste mie parole, dopo tanto tempo passato, risuoneranno sul mare! Poiché è lì che vinceremo! La nostra volontà di resistere e la nostra gloria, è ammirata da ogni parte d’Europa e dal mondo intero! Sicuramente ci saranno momenti, in cui il nemico caparbio, scatenerà la sua furia, contro di noi! Forse sarà come una valanga! Poiché l’Imperatore è duro a morire! Ma noi vinceremo! Ve lo prometto!”  Ora Giovanni guardava quella Piazza gremita di gente, mentre i soldati schierati, erano immobili come statue, di fronte e vicini al loro Capo Supremo. Il sole batteva forte sulle pietre e sul campanile di Piazza San Marco, mentre le parole di Manin facevano eco intorno, la bandiera rossa sventolava in alto. Pensò che molti di quei soldati sarebbero morti. Intanto Manin continuava il suo discorso: “Noi vinceremo a tutti i costi, poiché abbiamo la Storia dalla nostra parte!” Le sue parole risuonavano nette, tanto che Giovanni le sentì dentro di sé e un brivido percosse il suo corpo, da fargli sembrare che il dittatore Manin, i soldati e il popolo veneziano, fossero un gran monumento di marmo. “Al mare!” “Al mare!” seguitò a declamare Manin, puntando l’indice verso la Laguna. “È lì che vinceremo!” Seguitò a dire. “Dobbiamo vincere ad ogni costo!” “Al mare!” “Al mare!” Giovanni si accorse che vicino a lui, il popolo veneziano, ancora una volta, era ebbro di gioia. Quelle parole semplici, ma pronunciate con entusiasmo ed enfasi, avevano fatto presa su quella massa. Giovanni pensava, che quell’uomo si fosse accorto troppo tardi, della Gloria di Venezia sul mare. Ormai la flotta non esisteva più. Comunque conosceva molto bene Manin. Sapeva con quanta volontà e perseveranza quest’ultimo aveva cercato una mediazione con l’Austria. Accondiscendeva perfino alla costituzione di un Regno Lombardo-Veneto, separato e se necessario anche a subire un Arciduca di casa d’Austria. Tutto questo per la vita della sua città. Dunque Manin era un uomo soprattutto di pace e d’onore. Se era giunto a quelle conclusioni, l’avevano costretto. Il suo animo come il suo pensiero, erano quelli di un uomo grande e generoso. Educato ad una vita semplice e di lavoro. Per questo si era circondato di ottimi collaboratori sia civili che militari. Verso la fine di aprile, il generale Haynau aveva riunito circa 24.000 uomini, nei pressi di Mestre. Quest’ultimo fissò il suo quartiere generale nel villaggio di Marocco, assieme a Radetzky, all’Arciduca Guglielmo e i luogotenenti-generali Weglo e Wimpffen. I generali Thurner, Vitaliani, Kerpen, Coronini e Welter si stabilirono invece a Mestre. Gli austriaci avevano fretta di occupare Venezia prima dell’estate, poiché il caldo e i cannoni degli assediati, sarebbero stati molto letali. A circa 2 chilometri dal Forte di Marghera, gl’imperiali piazzarono le loro batterie. Poiché quest’ultimo, secondo il piano dell’Alto Comando, doveva cadere per primo. Il generale Ulloa, che sostituì il generale Rizzardi, nel comando del Forte, vide perfettamente con il binocolo, la mattina del 4 maggio, la sagoma del cannone nemico e subito, con le sue artiglierie, prese a tirare su di essi, due colpi per ora, con ogni singolo pezzo. Subito dopo mezzogiorno, il nemico smascherò circa 40 cannoni, 13 mortai, 5 orici e molti cavalletti per razzi e cominciò un fuoco infernale verso la Fortezza.

Iniziò la vera battaglia con il tuono del cannone. Giovanni, quel giorno, come i cittadini veneziani, aveva sentito tuonare le artiglierie, mentre Mo era in ospedale a lavorare. Si era recato allo Stato Maggiore, ove aveva sentito parlare dell’attacco a Marghera. La gente nelle strade correva, gridando. In un canale aveva raccolto una bottiglia, fatta con un vetro verde, che galleggiava nell’acqua putrida, assieme ad altre bottiglie. Dentro vi era un messaggio insolente, rivolto ai cittadini e firmato da Radetzky. Il messaggio aveva l’aria di un proclama e diceva così: “Venezia 4 maggio 1849. Maestranze e cittadini di Venezia, l’ora fatale è ormai giunta al termine! La pazienza di Sua Maestà l’Imperatore d’Austria e d’Italia, sta per crollare! Quale occasione migliore, si offre in questo momento! Potete scegliere, ancora, la via da seguire! Guardate la vostra bella città, adornata di opere d’arte! Voi potete ancora vivere, in pace, nella Regina della Laguna e dei Mari! Gli Arciduchi Carlo Ferdinando, Leopoldo e Guglielmo, sono vicini a voi e ogni giorno vi osservano dall’alto di una torre a Mestre! Il 7 maggio entreremo sicuramente, ad ogni costo, a Venezia! Un pittore disegnerà la scena! Unitevi a noi! Viva l’Imperatore d’Austria! Viva Venezia libera!” Giovanni, con quel messaggio in mano, entrò di corsa nello Stato Maggiore e vide che l’entrata era stata rafforzata da sacchetti di terra. Un sergente di nome Trevisan, della Guardia Nazionale, andò incontro a lui, salutandolo militarmente. “Tenente, il nemico ha cominciato l’offensiva”. Gli disse. “Guarda qui!” Rispose Giovanni, mostrando il manifestino. “Lo sappiamo” ribatté, con calma, l’altro. “Che si fa allora?” “Credo che sia cominciata veramente la battaglia”. “Com’era previsto, il nemico ha concentrato il fuoco delle artiglierie, sulla Fortezza di Marghera”. “Ma venga da questa parte tenente” seguitò a dire il sergente, indicando a Giovanni una stanza, di lato, ove vi erano altri militari, che conversavano tra loro. “Tra poco arriverà il Generale Sanfermo” soggiunse. “Desidera parlare a lei e agli altri”. “Forse si tratta di discutere una missione”. Giovanni entrò e il soldato, salutando, richiuse la porta alle sue spalle. Quando riuscì, era tardi e gli ultimi raggi del sole che tramontava, filtrando da una finestra, illuminavano, di rosso, una parete chiara del corridoio. Lontano il nemico, aveva quasi cessato il fuoco di artiglieria, che non era così intenso, come nelle prime ore del pomeriggio. Giovanni vide dei militari affiggere un bollettino di guerra nel corridoio. Si fermò a leggere. Vi era scritto: “Venezia 4 maggio 1849. Il nemico, da vari giorni, lavora assiduamente alle opere di attacco, al Forte di Marghera. Oggi, dopo le ore 12, ha scoperto 7 batterie, vicino al nostro bastione n. 6 e fra le lunette 12 e 13, è iniziato poderosamente il bombardamento. La nostra guarnigione ha risposto al fuoco, sparando circa 9000 colpi. Le perdite del nemico di ogni arma sono considerevoli. Le nostre ammontano a 4 morti e 18 feriti”. Giovanni, dopo aver letto, uscì dall’edificio, dirigendosi verso casa, con il fardello dei suoi pensieri nella testa. Era sera e nelle strade, udì il brusio sommesso della gente di Venezia. Intorno a lui, mentre imbruniva, c’era una strana pace. L’uomo pensò che quella fosse soltanto una pausa. Poi sarebbero venute le giornate future. Era contento di andare verso Mo e quelle serate lo rendevano felice. Voleva illudersi, ma non ci riusciva. Sapeva che un giorno tutto sarebbe finito. Vedeva nella sua mente, quegli spauracchi degli Arciduchi, vestiti in gran pompa, con le loro medaglie d’oro, sopra una torre di legno a Mestre, guardare con il binocolo Venezia, la loro preda tanto desiderata. La speranza era come un maldestro barlume. Forse all’ultimo ci sarebbe stata una grande parata, scandita da una strana sinfonia, pensò. Qualcosa sembrava che stesse per morire dentro di lui, come moriva Venezia. Immaginò come un ultimo rantolo meccanico e dopo più niente. Si riprese davanti alla porta di Mo. Bussò e la donna aprì. L’uomo entrò e si levò la mantellina militare, adagiandola su di una poltrona. “È tardi” disse la donna. “Pensavo che tu venissi prima” soggiunse poi. L’interno era accogliente, anche se gli spazi non erano molto grandi. Mo aveva acceso il fuoco nel caminetto e aveva messo un mazzo di fiori di vario colore, in un vaso, posto su di un tavolo centrale. “C’è stato molto lavoro questa sera” rispose Giovanni. “Ho preparato una cena all’Italiana” rispose lei gettandosi al collo dell’uomo. “Oggi desideravo molto questo momento” disse Giovanni. “Anch’io” rispose la donna. “Sono sicura che ci saranno molte sere come questa” soggiunse. “Non lo so” rispose l’altro. “Sei sempre pessimista, tu”. L’uomo era pensieroso. “A che pensi?” “Si può sapere?” “A niente”, “Proprio a niente” rispose, prendendo la donna per la vita. “Non ci credo”.  “A qualcosa stavi pensando”, “ma adesso siediti a tavola”. Mo aveva preparato una zuppa di verdure con dentro del pane, cucinato del baccalà in umido e stappato una bottiglia di rosso vino del Veneto. “Purtroppo c’è penuria di tutto e in ospedale dobbiamo tirare la cinghia” soggiunse lei. L’ambiente era rischiarato da alcune bianche candele messe su dei candelabri, posti su dei tavolinetti d’angolo. Intorno si sentiva un delizioso profumo. “Che cos’è?” Chiese Giovanni. “Questo qui, è un liquido che ho portato dall’Inghilterra” rispose lei, mostrando all’uomo del liquido posto su di un vasetto, con sotto una candela che bruciava. Giovanni pensò, che forse quel sistema, sarebbe stato usato molti secoli prima da popolazioni celtiche, poiché aveva già visto qualcosa di simile nei musei. Giovanni guardò intorno e vide che le loro ombre, erano proiettate sul soffitto, fatto di travi. “Sono felice” disse l’uomo. “Anch’io Giovanni e ti amo” rispose Mo. Ma quelle parole a lui fecero paura. Ciononostante baciò la donna. Quel tamburo aveva ripreso a suonare nella sua testa e Giovanni non poteva dimenticare, la situazione di essere un militare. I cannoni, l’indomani, avrebbero ripreso, sicuramente a tuonare. Ma quella era una paura meritata, nella sua vita errabonda. Perciò mangiò e poi andò a letto con la sua compagna. Nei giorni seguenti il blocco navale, come una belva, stringeva sempre più il collo di Venezia. Gli ospedali erano pieni di malati e scarseggiava l’elemento più importante: la carne. I contrabbandieri facevano del loro meglio, spingendosi oltre le linee nemiche, per portare questo prezioso elemento primario, già macellato, ma era poco, poiché gli abitanti della città erano ben 200.000. Anche il pesce, poiché i pescatori non potevano gettare le loro reti a largo. Solo poche barche, cariche di derrate alimentari e con la ciurma desiderosa di guadagno, riuscivano ad entrare nella Laguna. Le munizioni diminuivano ogni giorno, anche a causa del grande assorbimento, che ne faceva il Forte di Marghera. Quindi fu allestita, una fabbrica di polveri da sparo, nell’Isola delle Grazie, la quale ne distribuiva circa 10 quintali il giorno. Intanto gli austriaci avanzavano dalla parte del Forte. Erano arrivati a circa cinquecento metri, dalla batteria dei cinque archi. Si avvicinavano a forma di arco e avevano rafforzato la loro poderosa artiglieria, con due batterie di 16 cannoni da 80 alla paixhans. I nostri cercavano, durante il giorno, con tiri ben precisi, di molestare quei lavori, ma il nemico proseguiva a costruire le sue fortificazioni durante la notte. Il generale Ulloa, allora, pensò di far uscire, di frequente, pattuglie di bersaglieri, che con tiri ravvicinati colpivano i soldati austriaci. Ma questi, caparbi, mettevano a lavorare squadre intere di contadini italiani, riparandosi così dal fuoco avversario. Sembrava un gioco, ma gli uomini morivano. Intanto Giovanni aveva ricevuto l’incarico di una missione particolare, da parte del generale Marcantonio Sanfermo, cioè da colui, che si era opposto ai piani di congiunzione con l’esercito di Carlo Alberto, proposti dal generale Ulloa, poiché troppo rischiosi, in quel momento. Sicché quasi ogni giorno doveva recarsi allo Stato Maggiore, per studiare le mappe e alcuni dettagli, poiché doveva portare un messaggio cifrato, in un apposito involucro, ai comandi, dell’esercito piemontese. Anche altri avevano ricevuto quell’incarico, sicché se non riusciva l’uno, sarebbe riuscito l’altro e tutti dovevano distruggerlo se catturati. In quei giorni il generale Haynau che aveva diretto l’assedio di Marghera, era sostituito dal tenente-maresciallo Thurn, poiché gli era stato assegnato un altro comando in Ungheria. Gli austriaci avevano terminato i lavori e i cannoni di questi ultimi, cingevano la Fortezza. Il nemico era armato di 140 cannoni di grosso calibro e i nostri ne avevano solo 64. Il 24 maggio, subito dopo il sorgere del sole, le artiglierie imperiali, cominciarono a tuonare contro il Forte di Marghera. Era una scena terribilmente spettacolare e forse senza precedenti. Le bombe facevano tremare la terra cadendo da tutte le parti e i nostri, senza scomporsi, ai loro posti, rispondevano al fuoco del nemico. Erano entrati in azione, da parte austriaca, circa 160 pezzi di grosso calibro, tra cannoni, mortai e paixhans. Le casematte, con le loro volte, cominciavano ad essere smantellate dalle bombe di grosso calibro, che scoppiavano ovunque, aprendo grosse buche nel terreno del cortile e seminando la morte. La Fortezza era avviluppata da una coltre di fumo e le saette, come quelle di un sinistro temporale, avvolgevano il Forte. I nostri, dal sorgere del sole, erano lì, immobili a fare il loro dovere e la bandiera tricolore, sventolava alta, sul pennone del Forte, in barba al nemico. Il Corpo Eroico che vi si distinse di più, fu quello di Bandiera e Moro. Questo era formato solamente da volontari veneti di tutte le classi: studenti, professionisti, letterati, poveri e ricchi. Veri soldati per la disciplina, ricevevano la paga come le altre truppe ed erano tutti animati da un solo pensiero: “Quello dell’Italia libera dallo straniero!” La battaglia continuava senza sosta e durante la notte il cannone tuonava ancora. Vi fu solo qualche ora di tregua, per riparare alla meglio le casematte distrutte, sostituire i cannonieri morti con i vivi, ed evacuare i feriti, che volevano ancora combattere. La mattina del 25 maggio, tra il furore delle granate, la Fortezza di Marghera era un vasto cimitero. Le bombe avevano fatto grandi buche, le casematte erano forate da parte a parte e sfondate; molti cannoni distrutti; i depositi per la polvere, erano scoperti e potevano esplodere a ogni momento. I morti erano ovunque, ma Ulloa e gli altri comandanti davano prova di coraggio, in mezzo allo scoppio delle granate. Tolotti, il Comandante del glorioso Corpo Bandiera e Moro, era stato ferito, gravemente, a una gamba, che in seguito gli fu amputata. Intanto il nemico era vicino e sparava sui nostri, ma molti di questi ultimi sfidavano la morte stando, come spauracchi, sulle traverse e i bastioni del Forte, per delle mezz’ore e prendevano in giro gli assalitori, anche con delle pernacchie. Ombre scure, in controluce, come fantasmi, che a volte facevano capolino, a sprezzo del pericolo e incutevano paura al nemico, che li guardava. Quando giunse la notte, la terribile notte, Ulloa fece contare i cannoni e vide che ne erano rimasti soltanto trenta. Allora mise in batteria, nei punti più strategici, quelli di calibro 8 e 12. La mattina del 26, il fuoco che era stato mantenuto per tutta la notte da ambo le parti, continuava ancora su tutta la linea. I gondolieri facevano il loro dovere, trasportando i morti e i feriti della battaglia in corso e anche le munizioni, cantando canzonacce contro il nemico, che sparava su di loro. Ma anche gli austriaci avevano avuto le loro perdite, poiché il fuoco non era intenso come prima. Le batterie di Campalto erano quelle più micidiali. Molte barche e gondole, erano centrate, e quindi calavano a picco. Il Forte di Marghera era divenuto un cumulo di macerie e più di 500 erano i morti e i feriti. A Manin non rimase altro che decretare l’abbandono del Forte e il generale Ulloa eseguì il decreto nella notte tra il 26 e il 27 maggio. La retroguardia scaricò sul nemico gli ultimi proiettili, mentre gli altri in piccoli gruppi, si ritirarono verso Venezia. Il nemico rispose al fuoco come prima. I nostri ingaggiarono ancora battaglia, poi resero inservibili, gli ultimi pezzi di artiglieria e abbandonarono il Forte. Verso l’alba del 27 maggio, gli austriaci ripresero a cannoneggiare, ma non ricevendo risposta, rimasero sorpresi. Avendo paura di qualche trucco, temporeggiarono. Poi ripresero il fuoco con intensità e subito dopo occuparono il Forte. Tentarono anche di avvicinarsi alla città, dal ponte della ferrovia, ma furono accolti dalle palle della batteria italiana, posta sul piazzale dello stesso ponte. Quella notte Giovanni era di servizio sul grande piazzale, assieme al Ministro Cavedalis e al suo seguito, per ordinare la ritirata delle truppe. Fu costituita una nuova linea di difesa, che andava dall’Isola di San Secondo, sulla destra del ponte, a quelle di San Giorgio e Sant’Angelo, sulla sinistra. I forti dei quali, furono armati da batterie di grosso calibro. Le arcate del fatidico ponte, della ferrovia, che partiva da Santa Lucia e percorreva circa 3600 metri di Laguna per congiungersi alla terra-ferma, furono fatte saltare in aria in vari punti, dopo che il presidio del Forte di Marghera, si era ritirato. Il gran piazzale, che in seguito fu chiamato di Sant’Antonio, fu convenientemente barricato e sette pezzi di artiglieria furono posti in batteria. Una barca chiusa, ancorata sotto uno degli archi, fungeva da polveriera principale. In un piazzale minore, comunicante con il primo, ma anche questo barricato con traverse, furono posti tre cannoni di grosso calibro, che servivano di retroguardia. Una seconda linea in caso di caduta della prima, fu costituita nella città stessa, che con i suoi stretti canali, per il nemico, costituiva una rocca-forte imprendibile. Perciò varie batterie, furono sorte al Campo di Marte, a San Lucia e presso Cannareggio. La mattina del 27 maggio Giovanni da dietro una barricata, accanto al sergente Trevisan, con un binocolo avuto in dotazione, poteva scorgere in lontananza, gli austriaci affacciarsi sulla testata del ponte. Allora il tenente di vascello Tilling, che in quel momento comandava la Piazza, ordinò: “Fuoco!” “Fuoco!” Le bombe centrarono il nemico, assieme alle rovine del ponte. “Guardi tenente!” “Guardi!” Indicò il sergente a Giovanni. “Quei dannati fuggono!” Seguitò a dire, ballando dalla gioia. Poco dopo udirono una grande esplosione. “È l’Isola di San Giuliano, che ingoia il diavolo” soggiunse il sergente. “I nostri si sono ritirati questa notte”. “Ma prima hanno minato tutto”. “Venderemo cara la nostra pelle”. Il Trevisan, così dicendo, tirò fuori un fiasco di vino rosso da un angolo. “Beva tenente”  disse. “Grazie, ma non ne ho voglia” rispose Giovanni, pensieroso e riponendo il binocolo nella custodia. “Non stia così” soggiunse il sottufficiale, tracannando il liquido rosso e andando incontro a Giovanni, che si era allontanato dalla barricata, dirigendosi verso il Piazzale. “Sembra che Bologna stia per capitolare” rispose Giovanni. “Addio Italia” disse l’altro. “Ma non è detta l’ultima parola” seguitò. “Abbiamo ancora molte munizioni e ci batteremo fino all’ultimo”. “Al nostro grande eroe Ulloa, cui è stata affidata tutta la linea di difesa!” “A Manin e al Generalissimo Guglielmo Pepe!” Esclamò il sergente tracannando ancora una volta il buon vino. “Viva l’Italia e a morte l’invasore!” Soggiunse. Intanto Giovanni guardò verso la città e vide che il sole stava per sorgere. Pensò, che cominciasse un’altra giornata e altri uomini sarebbero morti. Pregò il buon Dio di lottare contro il Dio della guerra, affinché quest’ultimo fosse più clemente. Intanto qualche giorno dopo, l’Assemblea di Venezia, con a capo Manin, quasi unanime, confermava, ancora una volta, il voto del 2 aprile, decretando di resistere a ogni costo all’invasore. Questo avveniva, quando Venezia, bloccata da ogni parte, con gli austriaci già nella Fortezza di Marghera, sentiva la mancanza di viveri, le finanze dello Stato erano ridotte ai minimi termini, le ferite e le malattie, avevano diminuito l’esercito di un terzo. Ma Manin non si scoraggiò e il primo giugno, il Generale Guglielmo Pepe passò in rivista la valorosa Guarnigione di Marghera, tra l’entusiasmo della popolazione. Il Ministro austriaco De Bruck, aveva cominciato delle trattative con il Governo di Venezia, ma le sue offerte erano inaccettabili, poiché rimetteva tutto alla sovranità dell’Imperatore sulla città. In quei tristi giorni, benché fosse primavera, il cielo si era riempito di nuvoloni. Assomigliava a quello inglese, come diceva Mo a Giovanni. Nonostante tutto quest’ultimo aveva ritrovato la forza di scrivere i suoi appunti sull’arte e di frequentare ancora la Quadreria dell’Accademia. Anche se era chiusa, aveva ottenuto un permesso speciale. I tempi erano cambiati e tutto si era trasformato. I sacchetti di carta gialla, riempiti di terra, erano da tutte le parti: intorno ai cannoni, per le vie, all’entrata delle chiese e delle abitazioni private, e quindi anche al portale dell’Accademia. A volte le schegge ne colpivano diversi, e allora la terra che usciva fuori, trasportata dal vento, andava ovunque. Qualcuno di questi, sventrato, rimasto a terra, faceva pensare ai vari feriti, che giacevano negli ospedali e ai morti di Venezia. Il sacchetto sembrava un cadavere, che languiva, con una grossa ferita nel ventre, come quella città morente. Quello stesso vento colpiva le gote di Giovanni e Mo. In tutti i luoghi, vi erano poi, le famose e generose Guardie Civiche armate, che vigilavano sui prodi cittadini veneziani. Se tutto funzionava, ancora, in gran parte, era per merito loro, poiché erano in città e nella Laguna. Spesso Mo, accompagnava Giovanni, nelle visite alla Quadreria. Un giorno i due si sedettero in una panca, a guardare quella grande e immensa opera d’arte di Gentile Bellini, cioè “La Processione in Piazza San Marco”. Era ancora lì, in tutta la sua stupenda e maestosa grandezza. Giovanni temeva, che quell’opera così bella, potesse finire, come bottino di guerra, a Vienna. “È splendida!” Gli aveva sussurrato l’inglese. “Che meraviglia, tutte quelle maestranze in costume!” “Sembrano quelle della corte del mio Re, in Inghilterra” disse Mo.  “Vedi Mo com’è grande Venezia!” esclamò l’uomo. “Da questo quadro puoi vedere la sua gloriosa storia, fatta di memorabili imprese”. “Per questo dobbiamo pregare per lei, affinché non muoia”. “Manin ha ragione” soggiunse Giovanni. “Ma tutti l’hanno abbandonato”. “Solo l’America e la Svizzera riconoscono il suo Stato”. Ribatté l’uomo. “L’America è lontana e la Svizzera può far poco in questo momento” rispose Mo. “Si è vero” disse Giovanni. “Comunque esistono ancora il Re e l’esercito italiano” soggiunse. “Questi non sono morti”. Poi i due uscirono per fare una passeggiata e percorsero le strade di Venezia barricate, attraversarono il famoso Ponte dei Sospiri. L’inglese aveva un bianco fiore in mano, colto poco prima, dalla finestra di un giardino e lo gettò nell’acqua della Laguna. Giovanni lo guardò allontanarsi nella corrente, finché scomparve. Allora pensò alla sua missione. “Non siamo niente su questa terra” disse, mesto, l’uomo. “Sì, lo so” rispose la donna. Poco dopo si era fatto buio e i due entrarono in una chiesa. L’ambiente era rischiarato da grosse candele. Da alcune piccole finestre, ove s’intravedeva il cielo azzurro, entrava un po’ di luce. Dietro l’altare vi era un grosso crocefisso di legno colorato e dopo di questo si potevano vedere le grosse canne verde scuro di un organo, che si stagliavano davanti a delle grandi e alte finestre ad archi, dai vetri di Murano, lavorati con figure sacre colorate. Gesù in croce sembrava piangere per Venezia. Intanto i cannoni cominciarono a tuonare lontano. In quel luogo sacro molte persone pregavano accoratamente. Poco dopo l’organo iniziò a suonare forte, soffocando l’urlo e l’esplosione delle granate. I due si fecero il segno della croce e s’inginocchiarono. Mo si mise un fazzoletto scuro sul capo, poi rivolse i suoi occhi, che in quel momento le luccicavano per la commozione, verso il crocefisso con Gesù morente e cominciò a pregare. “O buon Dio misericordioso” disse sommessamente. “Voi che siete nel gran Regno dei Cieli”. “Voi che potete tutto”. “Non ci abbandonate, e aiutate Venezia e Giovanni”. In quel momento una bomba esplose lì vicino, forse colpì una casa o cadde in un canale. Tutti i vetri si ruppero con fragore e allora i credenti alzarono forte un inno di Gloria al Signore. Qualche giorno dopo tutto il popolo veneziano era affranto dal dolore, per i gravi bombardamenti sempre più frequenti. Intanto il pane, elemento primario, cominciava a mancare. Allora per risparmiare la farina si cominciò a mischiarla con la segale, e le pagnotte venivano scure e dal sapore sgradevole. Si cercò, anche, di macinare l’avena, i fagioli e i ceci. La carne era di pessima qualità e comunque era servita per prima negli ospedali. I salumi e i formaggi erano sufficienti, ma così insalubri che producevano malattie dolorosissime. Si trovava il vino di Cipro, che era prodotto a Venezia, ma di costo elevatissimo. La polenta era razionata. Le munizioni erano scarse e la polvere da sparo scadente, poiché le scorte del salnitro stavano per finire. Mancava il ghiaccio per i feriti e la china era pochissima, per i molti casi di malaria. Con l’avvicinarsi della calda stagione i malati sarebbero aumentati. Nessuno prevedeva l’avvicinarsi del colera. Da questa situazione e per la scarsità di viveri, Venezia fu grande, restituendo al nemico, sulla Costa Dalmata, i prigionieri. Gli austriaci continuavano ad avanzare. Avevano posto sulla testata del ponte una batteria di 6 cannoni, mentre nel Forte avevano trasportato il materiale d’assedio e collocate altre artiglierie. Lo scopo del nemico, era quello di impedire i lavori di fortificazione, nella zona prospiciente al Piazzale. Avevano anche costruito un ponte di legno, che univa il Forte con l’Isola di San Giuliano. Questo ponte fu chiamato dagli austriaci “Il Passo della Morte”, poiché spesso era colpito dai navigli italiani, ancorati nel Canale di Bottenighi, che lo prendevano d’infilato, attraverso gli archi rotti. Gli assedianti per lavorare meglio, abbandonarono i lavori durante il giorno e li proseguirono nella notte. Il 12 giugno i nostri poterono scorgere due poderose batterie. Un’altra era stata costruita su di una lingua di solida terra, di fronte allo stretto Canale di Bottenighi per eliminare i navigli. Il giorno 13, nel primo mattino, nella Laguna c’era foschia, le rade nubi erano basse, sulla terra-ferma la nebbia si stava diradando e il mare era calmo. Molte barche, non lontano dal Piazzale, stavano lavorando sotto gli archi rotti, per liberare il luogo dai rottami e utilizzarli poi nelle fortificazioni adiacenti. I gabbiani, con il loro cinguettio, volavano rasentando la terra e il mare, alla ricerca del cibo. Qualche barcaiolo canticchiava sommessamente. Sembrava una strana pace, poiché la belva era sempre lì, che ruggiva protetta dalla nebbia. All’improvviso, quando quest’ultima si diradò, colpita dai primi raggi del sole, le batterie di San Giuliano, per prime, accompagnate dal fuoco di 4 obici e 12 mortai, di cui 4 sugli archi, cominciarono a tuonare, lanciando i proiettili contro la città e i forti. Subito dopo aprirono il fuoco le batterie sulla testata del ponte. I cannoni spararono con le loro nuvole di fumo, con i loro lampi, con i loro sibili e poi con le loro esplosioni. I primi sbuffi di acqua verde, salmastra e con la spuma intorno, cominciarono ad apparire presso gli archi, accompagnati da un pesante tonfo. Alcune barche furono affondate, mentre altre riuscirono ad allontanarsi dal luogo. Quel giorno era la festa di Sant’Antonio di Padova e il popolo veneziano aveva battezzato la batteria del famoso Piazzale con quel nome. I Veneziani amavano quei cannoni che difendevano la porta della loro città e ne riconoscevano la voce tra altre mille. Quando essi tacevano per poco tempo, quei cittadini diventavano malinconici. Quindi il grande padre Manin e la batteria di Sant’Antonio, erano nel cuore e sulla bocca di tutti. Quest’ultima, armata da 7 pezzi da 18, da 24 e da 2 mortai, quel giorno, era comandata dal tenente-colonnello Cosenz che rispose subito al fuoco, sostenuto dai cannoni di San Secondo. Per 70 giorni fino alla caduta di Venezia, questa fu la battaglia, che il popolo chiamò dei “Tre Santi” (Sant’Antonio, San Secondo e San Giuliano). I nemici ogni giorno sparavano sulle nostre batterie e queste rispondevano. Le nostre batterie spesso erano sconquassate dalle granate e gli artiglieri morivano, ma nessuno si scoraggiava e gli uomini assieme ai pezzi erano sostituiti, e il duello delle artiglierie proseguiva cruento. Il combattente durante l’azione di battaglia aveva il sostegno dei compagni, che lo contornavano e lo spazio per correre all’attacco. Sul Piazzale non poteva fare niente di tutto questo. Al centro di quest’ultimo c’erano soltanto la batteria con la bandiera tricolore, le munizioni e gli artiglieri. Forse quegli uomini si sentivano isolati, poiché erano circondati soltanto dai sacchetti di terra, dal fumo del fuoco delle granate, e dal deserto della grande Piazza, ma la battaglia, incessante, continuava. “Pum!” “Pum!” “Pum!” Il centro del Piazzale si riempiva di fuoco e fumo.

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