Il rapporto tra scienza e genere, indagato da un punto di vista storico, critico e sociologico, è ormai divenuto uno dei temi più esplorati dalla ricerca accademica.
E’ sempre molto affascinante immergersi nel pensiero dei grandi della fisica, e nell’era moderna ne abbiamo conosciuti diversi, tutti animati da una profonda passione per la scienza e dotati di straordinarie capacità logico-deduttive, molti uomini e tra loro anche qualche grande donna. In questo articolo ho il piacere e l’onore di ricordare la vita di una delle più brillanti menti del Novecento, Marie Curie.
Nata a Varsavia nel 1867, naturalizzata francese per poter frequentare l’Università, Marie Curie Skłodowska dedicò tutta la sua esistenza allo studio di numerose discipline che oggi definiremmo STEM (dall’inglese Science, Technology, Engineering and Mathematics), e fu la prima donna a varcare come docente le porte dell’Università della Sorbona di Parigi.
Con il marito, il fisico Pierre Curie, Marie non si risparmiò, impiegando anni di lavoro massacrante per studiare a fondo la pechblenda, minerale radioattivo e una delle principali fonti naturali dell’uranio. Ne esaminò tonnellate, fino a isolare, nel 1898, una minima quantità di un nuovo elemento dalle caratteristiche molto simili al tellurio e 330 volte più radioattivo dell’uranio, il polonio, così denominato in onore della patria natia della Curie, elemento che tuttavia evidenziava un’attività eccessiva e una vita troppo breve perché ne fosse possibile l’estrazione su scala industriale.
Di tale scoperta fu data notizia mediante la pubblicazione di un articolo specifico nel luglio 1898, mentre nei mesi successivi la studiosa portò alla luce dalla pechblenda anche un altro elemento, il radio. I sali di radio puri sono incolori, ma le loro radiazioni coloravano le provette di vetro che li contenevano di un bellissimo azzurro-malva. E proprio quella sostanza così attrattiva illuminò il laboratorio dei Curie non solo di sogni, ma anche di progetti concreti, determinanti per la storia dell’umanità. Il 26 dicembre 1898 la scienziata comunicò l’isolamento di questo secondo elemento, dal quale deriva la parola “radioattività”, termine che si riferisce a quell’insieme di processi fisico-nucleari per cui alcuni nuclei atomici instabili trasmutano, secondo diversi tempi di decadimento, in nuclei di energia inferiore, emettendo radiazioni ionizzanti. I nuclei risultato del decadimento sono più stabili, in accordo con il principio di conservazione della massa-energia e della quantità di moto.
È così che il fisico, chimico e matematico Marie Curie, nonostante soffrisse di depressione, divenne la prima persona al mondo a ricevere ben due Premi Nobel. Il primo, nel 1903, Premio Nobel per la Fisica, condiviso con il marito e con Antoine Henri Becquerel, per i suoi studi sulle radiazioni, e il secondo nel 1911, cinque anni dopo la morte di Pierre, per la Chimica, da sola, per l’isolamento del radio e del polonio.
Dagli studi di Marie Curie sappiamo che, se da un lato la radioattività ha consentito lo sviluppo di numerose tecnologie nucleari impiegate principalmente in ambito medico, industriale, militare e agricolo, tuttavia essa è anche potenziale causa di gravi danni alla salute per l’uomo, in quanto le radiazioni ionizzanti generate possono danneggiare il DNA delle cellule, alterare l’ambiente che le circonda e da tali trasformazioni può originarsi lo sviluppo di un tumore. Sfortunatamente, ai tempi degli esperimenti dei Curie, si ignorava che lavorare sulla pechblenda si sarebbe rivelato letale per la salute di Marie e di molte persone a lei vicine, tanto che alcuni suoi scritti sono conservati in teche di piombo e rimarranno radioattivi per altri 1500 anni.
Marie Curie morì in Francia nel 1934 per un’anemia aplastica, causata proprio dalle radiazioni a cui il suo corpo era stato per lungo tempo esposto.
Rileggendo la storia di questa donna e dalla sua caparbietà e determinazione, è naturale un ripensamento sulla tanto discussa parità di genere. Perché per Marie Curie in quanto donna, tutto fu più difficile: era donna di scienza, e per qualche assurdo motivo si è sempre pensato che le donne non fossero adatte agli studi scientifici proprio in quanto donne, era donna e ci si permetteva di investigare sulla sua vita privata anche per assegnarle un meritatissimo Premio Nobel, e sempre perché donna le fu concessa la cattedra alla Sorbona solamente per via della prematura morte del marito che occupava quella posizione, ma non certo perché la comunità universitaria fosse disposta a riconoscere i suoi meriti in quanto tali, ovvero indiscutibili capacità di analisi scientifica e di indagine della realtà fisica.
Eppure, il suo nome campeggia insieme a quello di Einstein, di Heisenberg, di Schrodinger, di Feynman, e di altri colleghi tra i più brillanti della fisica teorica moderna, senza essere loro da meno. E questo anche perché Marie Curie non si fermò mai davanti ad atteggiamenti discriminatori, pareva quasi non vederli e quello che per altre donne sarebbe stato un problema non lo era per lei. Del resto a cosa sarebbe servito fermarla? Qualche uomo sarebbe parso migliore senza il genio di Marie Curie? No di certo, il valore reale degli esseri umani, uomini o donne che siano, non può essere nascosto da vili sotterfugi e i fatti di cui la Curie fu capace non erano alla portata di nessun altro.
Chiudo con un’autorevole sua citazione:
“Sono di quelli che pensano che la scienza abbia in sé una grande bellezza. Uno scienziato nel suo laboratorio non è soltanto un tecnico: è anche un fanciullo che si pone davanti ai fenomeni naturali, che lo impressionano come una fìaba. Noi non dobbiamo permettere che si creda che tutto il progresso scientifico si riduca a meccanismi [ … ]. Io non credo nemmeno che, nel nostro mondo, lo spirito di avventura rischi di sparire. Se io vedo intorno a me qualcosa di vitale, è proprio questo spirito di avventura che sembra indistruttibile” (Marie Curie).
Nuclear Engineer, SDA Bocconi Senior Executive Fellow