Ma i nostri impassibili come statue, ai loro posti, ricaricavano i pezzi, aspettando la morte e questa spesso arrivava. I soldati morivano in quella lunga e spaventosa battaglia degli archi, senza che nessuno avrebbe ricordato il loro nome. Sembra ancora di sentire i comandi del valoroso tenente-colonnello Cosenz, tra il sibilo delle granate, ai suoi uomini, di pietra, che aspettavano la morte. “Caricate!” “Puntate!” “Fuoco!” Poi il comandante Cosenz fu chiamato a difendere il primo circondario di difesa e fu sostituito dal luogotenente-colonnello Rosaroll. Questa era la situazione di Venezia, quando Giovanni ebbe l’incarico della sua missione segreta. Intanto quel tamburo, nella sua testa, si era fatto risentire. Egli amava Mo, ma la sua situazione di uomo randagio valeva poco. Sapeva che non poteva offrire nulla a quella donna, data la sua precaria condizione. Un giorno fu chiamato allo Stato Maggiore e il generale Sanfermo gli dette il famoso plico, da consegnare al più vicino avamposto piemontese. Una barca lo avrebbe trasportato sulla terra-ferma nella zona vicino a Chioggia. Entro poche ore si sarebbe trovato in territorio nemico. Quel giorno stesso Mo era di servizio all’ospedale delle Convertite, dove era stata trasferita dal 28 maggio, cioè subito dopo l’evacuazione del Forte di Marghera. Pensò bene di lasciare un biglietto, sotto l’uscio della donna, che diceva così: “Cara Mo, tu sai quanto ti amo e quanto mi manchi ogni ora della giornata”. “Vorrei rimanere, per sempre, con te”. “Forse questo è il mio unico desiderio”. “Ma non posso dimenticare di essere un soldato”. “Queste parole che scrivo a te, mi fanno molto soffrire”. “Sono consapevole che mi sentirò, terribilmente, solo, nelle ore che verranno”. “Ma devo adempiere il mio dovere”. “Non so, quale sarà la mia sorte”. “Per questo ti lascio”. “Dio mio, perché sei così crudele contro Venezia e i nostri!” “Tu sei straniera e le autorità austriache, in caso di resa, ti lasceranno uscire dalla città e riparare nel tuo paese”. “Spero di rincontrarti un giorno”. “Ma, per me, questo è come un barlume”. Addio Giovanni.

Qualche ora più tardi Giovanni approdava, con una barca, in un canneto a sud di Chioggia. Quel giorno era nuvoloso e sulla costa c’era nebbia. Egli era triste e depresso, poiché pensava ai suoi, a Mo, a Venezia e al suo futuro. Giovanni, per sua natura, s’immedesimava molto su tutte le cose, poiché era un uomo di pensiero, ma aveva un carattere pessimista, che spesso lo faceva cadere nella depressione. Ora figuriamoci in quella particolare situazione. Infatti, poiché aveva messo piede sulla terra-ferma, era un soldato travestito con abiti borghesi, che attraversava, con un particolare messaggio in tasca, la sua patria, occupata dal nemico. In quel momento, più che mai, si sentiva come su di una polveriera, che sarebbe esplosa da un momento all’altro. Per questo, con nostalgia, quel giorno, vide la barca allontanarsi da lui, tra la nebbia, mentre gli uomini dalle sagome scure remavano lentamente. Qualche secondo dopo scompariva nelle paludi della campagna veneta. Nei giorni che seguirono a Venezia, aumentarono i bombardamenti delle artiglierie austriache. Fu colpito a morte, mentre osservava il nemico, dando gli ordini alle batterie sul Piazzale, il luogotenente-colonnello Rosaroll. Avvolta dalla bandiera del Forte, la sua salma dentro una bara, collocata su di un affusto di cannone, al rullo dei tamburi, mentre i cannoni sparavano contro il nemico, fu portata in processione per le vie della città. Mo con gli occhi arrossati dal pianto, seguì il feretro di quell’eroe, che pianse tutta Venezia. La donna pensava sempre a Giovanni scomparso quasi nel nulla. Avrebbe voluto parlargli e fare qualcosa per lui, ma non c’era stato tempo in quella triste circostanza. Intanto il 20 giugno saltava in aria la polveriera dell’Isola delle Grazie. L’esplosione fu sentita a molte miglia di distanza, mentre un grosso fungo di polvere e fumo s’innalzava verso il cielo. Morirono quasi tutti gli operai, ma si poté salvare molta polvere da sparo, poiché era stata collocata in piccole cassette, in una casa lontana dal luogo dell’esplosione. I giornali parlavano poco di Venezia, poiché non c’erano corrispondenti nell’Isola. Solo qualche giornale di New York scriveva, senza particolari, che la città resisteva ancora. La battaglia continuava a infuriare al ponte, anche se il fuoco dei nostri era più lento, poiché scarseggiavano le munizioni. Sul Piazzale di Sant’Antonio fu ucciso da una granata il capitano Kollosek, di origine boema, succeduto al colonnello Rosaroll. Continuavano, senza tregua, i bombardamenti. In 28 giorni, caddero sulla città, ben 43.000 proiettili. Con il caldo aumentavano i casi di malaria e le paludi puzzavano. Mancavano il ghiaccio e il chinino. Tutti gli ospedali erano pieni di feriti e di malati. Mo con le maniche alzate e il sudore sulla fronte, accanto ai medici e ai chirurghi che amputavano di continuo le membra, lavorava senza sosta, poiché all’ospedale delle Convertite, entravano i militari feriti sul campo di battaglia e i civili feriti dai bombardamenti continui. Intanto dal 7 luglio il colera, come un fantasma, cominciò a mietere vittime. Mancavano le braccia per seppellire i morti, poiché ogni cittadino dai 18 ai 55 anni, era stato mobilizzato assieme alla Guardia Civica. Sicché i morti erano nelle vie e sulle piazze, come un immenso cimitero. Il pane nero era razionato, non c’era più il vino e gli abitanti bevevano l’acqua sulfurea dei pozzi artesiani. Ora taceva anche la celebre batteria di Sant’Antonio. Gli austriaci tentarono di bombardare la città per mezzo di palloni aerostatici, ma senza successo, poiché il vento li portava, lontano, fuori dall’obiettivo, prefisso. Il nemico non si arrese e a San Giuliano costruì ancora poderose batterie. Conficcò e fortificò, nel terreno, robuste travi, inclinate di 45 gradi, che fungevano da affusto ai grossi pezzi da 24 e ai paixhans da 80. Questi avevano una gettata di circa cinquemila metri. Il loro fuoco era, altresì, accompagnato da quello dei grossi mortai. Sessanta cannoni dovevano bombardare Venezia, senza rispettare i monumenti. Sicché nella notte del 29 luglio, dopo una breve pausa di qualche ora, mentre tutti dormivano, all’improvviso, alle undici e trenta, cominciò il bombardamento. Un fuoco micidiale di bombe colpì i tetti e le mura delle case, che caddero con strepitoso rumore. Quasi tutta la città era colpita dalle granate. Molte di queste caddero vicino a Piazza San Marco. Nello stesso tempo le batterie austriache battevano, quasi a tappeto, il Piazzale vicino agli archi, facendo tremare la terra. Era una scena spaventosa e di morte. I proiettili di grosso calibro fischiavano in aria e poi si abbattevano ovunque. Una folla di cittadini gridando correva, per le vie, senza sapere dove andare, in uno stato di confusione. Poi questa gente, composta di madri, con i loro figli lattanti al seno, da somigliare a tante madonne, da ragazzi che sorreggevano i loro vecchi genitori e da ragazze quasi nude, si ordinò in una lunga processione, dirigendosi verso Piazza San Marco, verso il Palazzo Ducale e le vie limitrofe, che erano le zone meno colpite dalle bombe. La paura era sempre grande nei loro cuori. In quella notte di terrore una bomba colpì l’ospedale delle Convertite quasi vicino a Mo e un padiglione rimase a cielo scoperto. La donna, assieme ad altre infermiere e a delle suore caritatevoli, mise al riparo gli ammalati e i feriti. Poi spense l’incendio con delle coperte. In quella confusione, le eroiche batterie di Sant’Antonio e San Secondo, rispondevano al fuoco del nemico. Mentre alcuni reparti della Guardia Civica, furono mobilitati per aiutare questa popolazione. La mattina del 30 luglio i raggi del primo sole che apparve tra le nubi, illuminarono la città. Questa era un cumulo di macerie e di morti. Il quartiere più esposto al fuoco fu quello di Cannareggio, poiché più vicino al nemico. Ma tutta la Penisola Italica, in quei giorni, era così. Roma, anche lei, sotto i bombardamenti francesi dovette capitolare. Solo in Piemonte sventolava il vessillo Sabaudo. Intanto a Venezia le morti per colera aumentavano di giorno in giorno. Per questo molte barche erano stracolme di cadaveri che gli equipaggi andavano a tumulare. Con lo scoppio delle bombe aumentavano gli incendi, molti dei quali erano forti come quello alla Riva di Biagio, nel Palazzo Zen, che si poté salvare solo in parte. La valorosa Guardia Civica e pompieri fecero quello che poterono. Purtroppo quando questi lavoravano il fuoco di cannoneggiamento austriaco, continuava incessante. Varie volte fu colpita e andò a fuoco anche L’Accademia di Belle Arti e molti quadri furono danneggiati, come “L’Assunta” di Tiziano. Il colera, implacabile, visitava non solo i cittadini, ma anche i combattenti. Si contavano ben 400 casi il giorno. Di fronte a quella catastrofe, il popolo voleva uscire in massa e battersi contro il nemico, ad ogni costo. Meglio morire in battaglia, che perire lentamente dicevano in molti. Ma Manin, il grande Manin, conosceva benissimo la maggioranza e la potenza del nemico e molte volte si affacciò al balcone della grande Piazza, per calmare gli animi di quei valorosi. La flotta non esisteva più, le artiglierie erano in minoranza rispetto a quelle austriache, il colera in aumento visitava anche gli equipaggi delle poche navi. Mancavano gli alimenti, i medicinali e le munizioni. Il nemico superiore di numero cannoneggiava sistematicamente, ogni giorno, i civili, i militari, i monumenti e le chiese. Per questo il 13 agosto il Padre Manin si affacciò di nuovo sul balcone della grande Piazza San Marco e pronunciò l’ultimo discorso ai superstiti composti dalla Guardia Nazionale e dal popolo. Questo grande personaggio storico si appellava all’onore di Venezia. Era un uomo meraviglioso, onesto e generoso. Se fosse vissuto Shakespeare, a quei tempi, avrebbe sicuramente scritto per lui, una gloriosa tragedia. Quel giorno mentre le artiglierie sinistramente tuonavano, e il sibilo e lo scoppio delle granate, faceva un terribile eco nella Piazza, illuminando i palazzi, il balcone si aprì, la piccola figura di Manin apparve al popolo, che sotto i piedi aveva il terremoto. L’uomo iniziò il famoso discorso: “Soldati cittadini!” “Eroico popolo di Venezia!” “Per diciassette lunghi mesi abbiamo tenuto alto il nostro onore!” “Per questo oggi siamo venerati e rispettati dai nostri amici e nemici!” “Il merito più grande è dovuto alla nostra Guardia Civica!” “Un popolo eroico come il nostro non può morire!” “Arriverà un giorno che raccoglieremo il bene seminato con l’aiuto di Dio!” Il dittatore mosse il braccio e la mano destra verso il cielo. “In questo momento più che mai, vi prego tutti di proteggere e conservare questo immenso Patrimonio, per i vostri figli e per quelli che verranno!” “Prego ancora una volta, l’ormai famosa Guardia Civica che ha sofferto e lottato, di riunirsi accanto a me, per difendere le famiglie e le case di Venezia!” “La fama, l’onore e la gloria della Guardia Civica, rimarranno eterni nella Storia!” “La Guardia Civica Promosse il Governo il 22 marzo!” “La Guardia Civica non è potere politico, ma lo stesso popolo in armi!” “Viva la Guardia Civica!” “Viva Venezia!” (scroscio di applausi). “La Guardia Civica è stata sempre in prima linea!” “La Guardia Civica ogni giorno aiuta i feriti e gli ammalati!” “La Guardia Civica aiuta a spegnere i fuochi e a distribuire la minestra ai poveri!” “Io stesso godo della sua fiducia e di quella del grande popolo veneziano!” “Ma io sono stato nominato dal potere politico, che potrebbe, declinare anche ad altri la mia nomina!” “Ora vi chiedo, se ancora, avete riposto in me tale fiducia!” (Scroscio di applausi, mentre la folla acclamava Manin). “Viva Manin!” “Viva Manin!” “Vogliamo sempre Manin il nostro grande Padre!” Poi il dittatore proseguì: “Sono triste e commosso per queste vostre parole, poiché ora so, quanto soffrite!” “Voi non potete sempre contare sulle mie forze fisiche, morali e intellettuali!” “Invece potete ciecamente contare sul mio profondo e immortale amore per voi, affinché possiate affrontare assieme a me, le prove che la Provvidenza ci ha riservato!” “Io non vi ho mai ingannato, ma ho sempre sperato come in questo momento!” “Io…” Manin, vinto dalla commozione, non poté più proseguire. Fu trasportato nelle sue stanze, ove proruppe in un pianto disperato. “Con questo popolo non ho più le mie forze!” Disse. In quei giorni ci fu l’ultima uscita del presidio di Venezia. Il tenente-colonnello Radaelli, con circa 700 uomini, si diresse da Treporti verso Cavallino attraverso le porte del Canale di Pordelio, con una forte avanguardia a 200 metri. Incontrò una grande massa di austriaci, che si accingevano a prendere posizione. La mischia fu tremenda. Dopo lo scambio con le armi da fuoco, il nemico cominciò a sparare con i razzi e a mitraglia. Il tenente-colonnello Radaelli, al suono della tromba, ordinò l’attacco alla baionetta. Il nemico non resistette e si dette alla fuga, lungamente inseguito dai nostri. Ma la sorpresa era stata scoperta e il giorno dopo di mattina, i nostri rientrarono negli alloggiamenti. Intanto anche la piccola flotta veneziana si ritirava, con il colera a bordo, senza aver potuto intercettare il nemico. Le ultime munizioni finivano, assieme all’ultima pagnotta. Dal 14 al 20 agosto, furono colpiti dal colera circa 3000 cittadini veneziani, dei quali la metà morì. Venezia si era trasformata in un grande incendio e il bombardamento durò fino all’ultimo. Ovunque dominava la morte e la distruzione. A Manin non rimase altro che firmare la resa, propostagli dal Ministro Austriaco De Bruck, in precedenza. Quest’ultimo rinnovava le stesse condizioni, con una lettera, il 16 agosto. Manin inviava quindi a Mestre, il Conte Priuli, Dataico Medin e il generale Cavedalis a trattare la resa. Essi dovevano definire alcuni punti importanti quali:

  • Il termine per l’evacuazione delle truppe;
  • Un elenco nominativo dei 40 cittadini esiliati;
  • Amnistia completa per gli altri;
  • Garanzia per i feriti gravi;
  • Debito pubblico, carta monetaria e nessuna imposta espiatoria come Brescia.

In quei tristi giorni la batteria “Roma” posta sulla strada ferrata, alcuni ex soldati austriaci passati nell’esercito veneziano e dei forsennati, volevano ancora battersi fino all’ultima goccia di sangue. Allora Manin con la sciarpa tricolore avvolta alla vita, assieme alla Guardia Civica, al generale Ulloa e ad alcuni ufficiali, si recò sul posto e con un commovente discorso, riuscì a calmare quella folla che si disperse. Le perdite della battaglia per difendere Venezia, furono molto rilevanti. Nel marzo 1849 l’armata veneziana contava circa 25.000 uomini. Al momento della capitolazione ne erano rimasti circa 11.000. Inoltre la gloriosa Guardia Civica ebbe molte perdite. Il giorno 24 agosto 1849, la bandiera bianca, sventolava sul Piazzale, nel luogo della batteria di Sant’Antonio, di fronte agli archi diroccati. La giornata era nuvolosa e triste, come l’animo degli uomini. Quello straccio bianco sventolava, là, vicino alla famosa batteria sconquassata, ove erano morti tanti uomini per la Patria. Segnava la fine di diciassette lunghi mesi di eroica resistenza al nemico. Quella bandiera non rappresentava una sconfitta, ma il principio della vita per le generazioni future, anche se incuteva, in quel momento, nell’animo di chi la vedeva, tristezza, come se qualcosa si fosse spezzato nei cuori delle persone oneste e generose. Ricordava la bandiera rossa di Piazza San Marco della morte per la vita. Sventolava beffardamente, come uno spauracchio, in quella giornata triste e ventosa, dal sapore dell’acqua del mare e della pioggia, mentre i gabbiani, adesso, volavano lontani. La vide Mo che con i suoi fagotti, assieme ad una processione di cittadini stranieri e scortata dai gendarmi austriaci, partiva da Venezia per la sua Patria: L’Inghilterra. La donna mentre la fissava e i suoi occhi brillavano, sentì le sue guance percosse dal vento marino e sulle labbra il sale del mare, mentre udiva lontano il cinguettio dei gabbiani, che le ricordavano il suo paese: Il Devon. Pensò a Giovanni, allora il suo cuore si fece piccolo, poiché le mancava tanto e chissà, se lo avrebbe rivisto?… Ma da buona inglese, pensava anche al suo dovere di andare avanti, quindi assieme agli altri affrettò il passo. Quella bandiera la vide anche Manin, Ulloa e il Generalissimo Guglielmo Pepe, che partivano in esilio. A loro ricordava l’odore della polvere da sparo, i cannoni sconquassati, la battaglia, il colera e la morte. Il corrispondente di un giornale francese: “Journal Des Débats” scriveva: “L’occupazione della città ha avuto luogo senza disordini”. “Le truppe austriache hanno incontrato nel loro passaggio un’accoglienza tetra e glaciale come dovevano attendersi dalla popolazione di Venezia”. “Questa resistenza di 17 mesi sarà ricordata dalla Storia come l’Onore della Rivoluzione Veneziana”. “Oggi, 28 agosto, 4 giorni dopo levato il blocco, il pane è sempre nero e cattivo e la carestia degli altri generi alimentari continua”. Si chiudeva così un capitolo doloroso della Storia d’Italia.

Dov’era Giovanni, mentre accadevano tutte queste cose? Egli si aggirava nella campagna veneta diretto verso il Nord. Era affamato, lacero, stanco e con la barba lunga. Cercava di camminare poco durante il giorno, per paura di essere fermato dalle pattuglie degli austriaci. Avvolto nel suo scuro mantello e con un berretto da contadino, evitava i centri abitati e i posti di blocco. Sicché camminava sempre in campagna e di notte dormiva sugli alberi o nei cimiteri. Quando aveva fame, coglieva della frutta, o comprava, soltanto, del pane con un po’ di formaggio, abbeverandosi nelle fonti. Capiva che doveva compiere il prima possibile quella missione. Ma i giorni non passavano mai e la strada era lunga e fatta di campi estesi, boschi, colline e paludi. Sembrava che quel territorio non finisse mai. Dietro una collina ce n’era un’altra. L’Italia, infatti, è fatta così. Purtroppo a quei tempi c’erano molti austriaci. Questi ultimi vigilavano da tutte le parti e avevano creato innumerevoli posti di blocco. Gli uomini disposti a forma di raggiera perlustravano anche la campagna, i cascinali abbandonati, i pagliai e ogni luogo in cerca di fuggiaschi. In una notte di luna, Giovanni attraversò furtivamente una strada e non si accorse che nel bosco vicino, erano nascosti gli austriaci. Un soldato appostato dietro un albero, lo vide gli intimò l’alt alle sue spalle. Giovanni non si dette per vinto e cominciò a correre, inoltrandosi in una vicina palude tra le canne. “Alt!” “Alt!” Gridò il soldato austriaco, chiamando una pattuglia con la mano. “Alt o sparo!” Soggiunse. Allora Giovanni cominciò a correre con tutte le sue forze, finché trovò l’acqua alta. Il suo cuore batteva forte e in quel luogo pieno di fango, melma e canne, la sua corsa rallentò. Ombre scure si aggiravano alle sue spalle. I soldati spararono più volte, ed egli sentì quelle pallottole fischiargli vicino. Ebbe tanta paura e gettò il messaggio tra il fango, pestandolo con lo stivale, in modo da farlo andare sul fondo. Poi ricominciò a correre, pazzamente. Inciampò più volte nelle canne e si ferì a un braccio. Ma non si arrese e ricominciò a correre, finché non sentì, una baionetta piggiata nella sua schiena. Era circondato da tutte le parti. Qualche minuto più tardi, quegli uomini, lo fecero salire su di una carretta, trainata dai cavalli. Sul mezzo vi erano dei civili. Sotto la scorta degli austriaci, con la baionetta innestata, la carretta si mosse. “Dove ci portano?” Chiese Giovanni agli altri. “A Cremona, è lì che interrogano tutti” rispose un italiano basso e dalla voce rauca. Infatti dopo circa un’ora, la carretta con i prigionieri, arrivò in quella città. Stava albeggiando, e tra qualche ora sarebbe sorto il sole. I passanti frettolosi, perlopiù, gente che si recava sul posto di lavoro, guardò furtivamente loro e qualcuno si fece il segno della croce. “Sembra che ci portino al patibolo” bisbigliò Giovanni. “Non so” rispose l’altro dalla voce rauca. “Certamente non scherzano” soggiunse poi. “Dipende dalla situazione di ognuno di noi”.  Dopo poco furono gettati in una stanza, che fungeva da cella, all’ultimo piano di una scuola, poiché le altre erano occupate da altri prigionieri. Erano in dieci in quella stanza umida, e di fuori c’era la sentinella. Qualcuno faceva su e giù e altri dormivano sulla paglia. “Mi trovo in un bel pasticcio” disse, tra sé, Giovanni e poco dopo pensò con forte nostalgia a Mo. Quella notte fu un inferno, e non riuscì a dormire. Lo spavento e il terrore s’impadronirono di lui. Come aveva fatto tante volte della sua vita, voleva reagire ma in quel momento non ci riusciva. Si sentiva già spacciato e quella gente che gli era vicino, per lui era come morta. Ogni tanto un carceriere apriva la porta per prelevare un prigioniero, che poi un ufficiale interrogava, perquisendolo. All’alba nella campagna lì vicino, sentiva le fucilazioni. Poco dopo, nel cortile, una voce di un ufficiale austriaco gridava delle parole in tedesco. “Italiani vigliacchi, traditori!” Diceva. “Tra poco se non parlate vi fucileremo tutti quanti!” Giovanni in quel momento pensò alla libertà. Lontano dalla finestra vide un uccello che volava. “Chissà Mo dove starà in questo momento?” “Che farà?” Pensò. “Forse pregherà per me”. “Ma è mai possibile che per la propria patria, uno, deve sopportare tutto questo?” In quel momento il suo compagno, ed esattamente, quello tarchiato e basso, sollevò, deciso una tegola del tetto vicino alle travi, e poi svelto, subito un’altra, e così via di seguito, aprendo un foro largo per una persona. Quest’ultimo si sollevò, per mezzo delle mani, e delle sue braccia che premevano il tetto. Poi porse la mano agli altri prigionieri. Dopo qualche secondo, anche Giovanni fu aiutato a uscire fuori da quel posto e si ritrovò a correre sui tetti assieme agli altri. Saltò da un tetto all’altro, con coraggio, finché trovò una casa non tanto alta e allora imitando gli altri, si gettò nel vuoto. Sentì un piede dolorante e udì i colpi lontani dei fucili quando cadde a terra ma non si scoraggiò e con tutte le forze che aveva, prese a correre tra i cespugli, la campagna, i boschi, i canneti e le paludi, con l’acqua fino alla gola, per giorni e giorni fermandosi solo pochi minuti per riposare dirigendosi verso la libertà che aveva perduto. Riuscì finalmente ad entrare in Piemonte, ma era ancora una volta, lacero, stanco, sporco, affamato, con la barba lunga. Aveva ancora con sé pochi denari e nel petto, sotto la camicia, gli appunti sull’arte. A Torino attraverso la stampa locale apprese i fatti di Venezia. Pensò che Mo si era messa al sicuro e viaggiava verso la sua patria, poiché fortunatamente, lei ne aveva una, ma lui era ramingo e solo per il mondo con la sola passione di studiare l’arte. Non volle presentarsi al comando dal momento che la sua missione era fallita. Quindi cercò di riparare in Francia. Varcò il confine e prese il primo treno per Parigi. In quella città, come a quei tempi, a Londra, vi erano molti rifugiati italiani. Prese un modesto alloggio vicino a Plaza De La Concorde. Ora egli era un esule. Che cos’è un esule? Un’esule è colui che bandito ha perso la propria patria, che è un bene molto grande, poiché in essa sono racchiuse molte cose. Un’esule è colui che ha perso gli affetti familiari, che aiutano a vivere, soprattutto con il cuore. Un esule infine è colui che ha perduto la propria lingua, che aiuta a comprendere e a stabilire una relazione con i suoi cari e gli amici. In poche parole Giovanni era, nella realtà, un uomo che veniva bandito e perseguitato se rimetteva piede nel proprio paese natìo: Legnago, poiché aveva amato e protetto la sua patria. Giovanni, adesso, a Parigi, poteva visitare ogni giorno il Louvre e gli altri musei, con lo scopo di prendere appunti e quindi studiare. Cercava anche di trovare lavoro come esperto d’arte presso qualche antiquario. Purtroppo la concorrenza era grande e la retribuzione misera. Comunque con quello che già aveva e con i pochi denari che riusciva a guadagnare, poteva studiare e quindi tirare avanti. Le persone audaci, spesso, sono sempre aiutate dal destino. Per questo era giunto a Parigi. Questa città aveva l’appellativo di centro culturale per l’arte e di molte altre cose. Quindi attirava presso di sé molta gente. Fu così che un giorno il famoso giornalista inglese Sir Joseph Archer Crowe, assieme ad un suo amico, in carrozza, passò vicino all’abitazione di Giovanni e da lontano riconobbe quest’ultimo, che camminava al lato della strada con i suoi libri sotto il braccio. Giovanni era vestito male, poiché non poteva permettersi abiti nuovi, ed aveva la barba lunga. Un povero, tra la folla, in un paese straniero. “Cavalcaselle!” Gridò l’uomo. “Sì è proprio lui!” Ribatté. “Chi?!” Esclamò l’accompagnatore, anche lui inglese, e dai modi raffinati. Due signori insomma con bombetta, baffi, e vestiti eleganti. “Dov’è costui?” “Si può sapere?!” Chiese con curiosità l’altro. Ma quello, là, con i libri sotto il braccio e la barba!” Rispose Crowe, indicando l’uomo. “Non mi posso ingannare, è proprio lui” continuò a dire. “Ma non vedi?!” Soggiunse l’altro inglese, sbirciando con la sua lente. “Non è altro che un povero mendicante!” “Al diavolo!” Rispose deciso Crowe, facendo fermare la carrozza vicino a Giovanni. “Alt!” “Si fermi cocchiere!” “Quello è un amico mio ed è un grande uomo!” “Cavalcaselle!” “Cavalcaselle!” Gridò, poi, scendendo dal mezzo. “Amico mio, finalmente ti ho ritrovato!” Esclamò l’inglese, abbracciando Giovanni con tutta la gioia. Quest’ultimo, sorpreso, contraccambiò l’abbraccio. “Come stai?!” Chiese Crowe sorridendo. “Non molto bene, come vedi” rispose Giovanni. “Ho molto bisogno di te, in Inghilterra”. “Dobbiamo parlare in qualche posto tranquillo”. “Cocchiere accompagni pure il mio amico in albergo, tornerò a piedi” soggiunse l’inglese, rivolgendosi all’uomo in cassetta. “Parleremo qui vicino dentro un caffè” proseguì, affrettando il passo assieme all’amico ritrovato. Quando furono a proprio agio in un tavolo d’angolo dentro il locale, Giovanni prese per primo la parola. “Hai saputo dei fatti italiani?” “Sicuro, sono sempre un giornalista”. “Allora devo dirti che sono un esule stanco”. “Ho partecipato alla difesa di Vicenza, Treviso e Venezia”. “È andata male, come sai, e nessuno ci ha aiutato”. “Sono vivo per miracolo”. “Gli austriaci a Cremona volevano fucilarmi”. “È stata una terribile avventura”. “Abbiamo cercato di costruire l’Italia!” “Spero che un giorno questo sogno si avveri!” “Tu hai una patria, l’Inghilterra!” “Io no, e sono un ramingo”. “Giovanni, amico mio, ora tutto questo è finito”. “Abbiamo bisogno del tuo aiuto in Inghilterra”. “Devi ricominciare da capo per costruire”. “Non abbatterti”. “Che cosa posso fare per te?!” “Ordinare da mangiare, perché ho tanta fame e poi parleremo”. “Giovanni, ordinerò del pesce fresco e una bottiglia di champagne, per festeggiare il nostro incontro”. “Per me sei un uomo prezioso, e come ho detto, ho estremamente bisogno di te”. L’inglese chiamò il cameriere che portò la lista delle vivande. Giovanni scelse il cibo assieme al suo amico. Era inverno, ma in quel luogo caldo e accogliente, si stava bene. Poco dopo presero a mangiare. “Presto sarò nominato ambasciatore a Parigi” disse Sir Joseph Crowe, stappando la bottiglia dello champagne. “Alla nostra salute e all’avvenire dell’arte!” Proseguì, poi, l’inglese, alzando il calice e brindando con l’italiano. “Alla grande arte!” Rispose Giovanni. Ora era felice e ogni tanto vedeva da dietro le tendine colorate del locale, i parigini che camminavano nella strada. All’improvviso la vita aveva preso un altro sapore. Quel liquido e il gradevole cibo nello stomaco, lo avevano reso leggermente euforico. La speranza non era morta. Quel suo amico straniero dal volto sorridente, dopo tanto tempo, gli aveva ancora una volta, ispirato fiducia. “Tra non molto dovrai recarti a Liverpool” disse l’inglese. “C’è un lavoro per te”. “Si tratta di catalogare i quadri di quel museo”. “Ti procurerò là un incontro con il mio amico Eastlake, direttore della Galleria Nazionale di Londra, con Waagen direttore del Museo di Berlino e infine con il Passavant, il celebre biografo di Raffaello Sanzio da Urbino”. “Come primo lavoro non è male!” “Sarà il tuo trampolino di lancio per Londra!” “Ma Sir Crowe io non ho un centesimo in tasca!” Rispose subito Giovanni. “Penserò a tutto” ribatté Crowe. “Ti darò un anticipo e ti comprerò dei vestiti decenti”. “Poi non conosco perfettamente la lingua inglese”. “Quello che so, mi è stato insegnato da una donna di Plimouth a Venezia”. “Tradurrò io”. “Ora devi raggiungere al più presto Liverpool”. “Ti raggiungerò là”. “In questo periodo sono molto occupato per ragioni diplomatiche qui a Parigi”. I due seguitarono a conversare e a mangiare fino a tardi. Quando a notte fonda la luna era alta nel cielo, uscirono dal locale, e salutando l’amico, Giovanni tornò a casa. Nei giorni che seguirono Cavalcaselle fece i preparativi per recarsi in Inghilterra. Incontrò ancora il suo amico, e dopo qualche giorno raggiunse Liverpool. Era il mese di gennaio 1851. Faceva freddo in quella città, ma Giovanni si sentiva a suo agio. Le strade erano pulite e i giardini ben pettinati. Cominciò assiduamente e lavorare, catalogando i quadri della locale Galleria d’Arte, e a imparare l’inglese. Spesso nelle riunioni incontrava Eastlake, il direttore della Galleria Nazionale di Londra, e altri celebri personaggi. Quest’ultimo, dopo mesi di duro lavoro, conobbe molto bene il Cavalcaselle, e lo invitò nella celebre Galleria, di cui era direttore, per stendere delle relazioni circa i restauri di quelle opere. Giovanni raggiunse Londra verso la fine di agosto. Aveva fatto una buona catalogazione dei dipinti a Liverpool, e ora si accingeva ad un compito più arduo. Egli si sentiva preparato. L’aria in quel mese andava rinfrescandosi. Molte cose lo tormentavano. Voleva scrivere una nuova edizione del Vasari, per mettervi tutto quello che aveva visto di nuovo. Era preso dalla grande visione dell’arte, poiché aveva fatto sue le ispirazioni dei grandi maestri, ed era entrato in essi. Si preparava a scrivere la vera e più grande Storia dell’Arte. Quella che generazioni di studenti di tutte le nazioni avrebbero imparato a scuola. Ma la Storia ha il suo prezzo, ed egli era sbalordito dall’incalzare degli avvenimenti. Lo preoccupava la sua esistenza di esule, anche se la madre Inghilterra lo aveva accolto nel suo grembo. A Londra aveva trovato alloggio in un piccolo appartamento in Cockspur Street, vicino a Trafalgar Square ove era la National Gallery. Poco distanti vi erano gli uffici dell’editore Murray. Giovanni passava molto tempo in quella Galleria, a studiare e a relazionare circa i restauri. Spesso lo tormentava il ricordo di Mo. Dove era in quel momento la sua compagna? Voleva cercarla, ma il lavoro era tanto e il Devon lontano.

Epilogo

Scrivere questo libro è stata un’esperienza emozionante. I manoscritti di mio padre, pittore, storico dell’arte antica e moderna, mi hanno portato verso la sublime e grande via dell’arte. Una via meravigliosa fatta di emozioni e sensazioni caratterizzate da una bellezza che è difficile da descrivere. Mentre riprendevo in mano i suoi manoscritti ricordavo i suoi preziosi insegnamenti sull’arte. Sentivo il profumo della cultura e della libertà. Rivedevo il suo studio d’arte a Roma. Sentivo la sua anima che pitturava e mi trasmetteva l’amore per l’arte. Ripensavo a quando osservavo un suo quadro del 1984 che rappresentava una meteora che si disintegrava nello spazio. Dalla luce dei frammenti del meteorite è riemersa l’immagine di un grande personaggio della Storia dell’Arte Italiana: Giovanni Battista Cavalcaselle. Ed ecco che la carta si anima e prende vita una storia nella quale si intrecciano opere d’arte eccelsa, fede e amor di patria. La via meravigliosa è un percorso costellato di gioie e difficoltà. Da una parte la contemplazione, il godimento estetico dell’opera d’arte, il piacere di unirsi all’ispirazione dell’artista per affermarne i sublimi valori; dall’altra la lotta per proteggere l’arte dall’ignoranza, dalla guerra e da tutto ciò che può contaminarla, distruggerla. Giovanni Battista Cavalcaselle è stato un patriota che ha lottato con tutte le sue forze per difendere l’arte restaurandola e affrontando le terribili insidie della guerra. Una figura patriottica che ci riporta anche ad altri eroi che in tempi più recenti sono morti per difendere il patrimonio culturale antico. Cito l’archeologo siriano Khaled Al Asaad (Palmira, 1 gennaio 1932-Palmira, 18 agosto 2015), morto per salvare le opere d’arte dell’antica città di Palmira dalla ferocia distruttiva degli jihadisti. La via meravigliosa è il gesto dell’artista che si esprime in tutta la sua spontaneità e creatività, uscendo fuori dagli schemi. L’artista fa rivivere i valori del passato nel presente. Mi piace scavare nei profondi meandri della Storia e scoprire forme espressive e artistiche che si sono perse nel tempo. Voglio portare il lettore a scoprire gli scritti di mio padre come se leggesse le pagine di un manoscritto antico. Riportarlo in un’epoca dove ancora non esisteva internet e la videoscrittura. Le pagine di carta diventano degli ipertesti dai quali emergono opere d’arte e patrioti della Storia del Risorgimento Italiano di cui si è persa la memoria.

Giovanni Battista Cavalcaselle (22 gennaio 1819, Legnago-31 ottobre 1897, Roma) era uno scrittore, storico e critico dell’arte, patriota italiano. Viene considerato come il fondatore della moderna critica dell’arte.

Sir Joseph Archer Crowe (Londra, 25 ottobre 1824-Gamburg an der Tauber, 6 settembre 1896) critico dell’arte e diplomatico inglese, scrisse la “Storia della pittura in Italia” assieme a Cavalcaselle.

Senza di loro non sarebbe esistita la Storia dell’Arte Italiana. Cavalcaselle negli ultimi anni della sua vita alloggia a Piazza Navona ed è povero. Egli prepara una cappa da morto, perché quando morirà non darà peso economico alla sua compagna. Il suo monumento anche se non è stato mai collocato all’Università La Minerva è fatto ancora oggi dallo spirito di pittori, studenti, artisti e studiosi che nell’arte, combattono per costruire l’umanità e non distruggerla.

 

 

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