Intanto sul ponte e nelle zone limitrofe, c’erano i primi caduti e feriti, italiani e austriaci. Nebbia e fumo ricoprivano la zona. Zambeccari e i maggiori Fontana e Meneghetti, con i due famosi battaglioni, assalivano da destra alla baionetta, le prime barricate di Mestre e uccisero subito gli artiglieri che difendevano i cannoni e non vollero arrendersi. Grida di dolore del nemico. I nostri appena superarono i primi ostacoli, attaccarono ancora una volta alla baionetta gli imperiali, di casa in casa. Quest’ultimi risposero subito al fuoco difendendosi accanitamente. Gli italiani s’impossessarono della zona denominata “Largo delle barche”. Nel frattempo la colonna centrale comandata dal Morandi si avventò con impeto, contro le palizzate marrone-scuro della stazione. Era un vero inferno. La battaglia infuriava e l’ostacolo era duro da superare, poiché i cannoni spararono a mitraglia, assieme alle armi leggere, sui nostri, che a ondate andavano all’assalto. Bisognava ad ogni costo, stanare gli imperiali da quel posto e proseguire. I lombardi ancora una volta si scagliarono, gridando, sulle palizzate e le superarono, ma la resistenza nemica diventava furiosa, al di là delle barriere. Assalti continui da ambo le parti e fuoco micidiale a distanza ravvicinata. Giovanni sporco di polvere sul viso posò il fucile a terra, riparandosi dietro un muretto, per non essere colpito dai proiettili nemici. Pensò che quelle belve non avrebbero ceduto mai. Erano troppo vicini e avrebbero attaccato di nuovo. Forse era la fine. Ma, improvvisamente, sentì uno squillo di tromba e tra la polvere e il fumo, vide alle sue spalle, il generale Ulloa che alla testa della compagnia di gendarmi assaliva il nemico, facendolo ripiegare su Mestre. Giovanni si rialzò da terra, si stropicciò gli occhi e riprese il fucile. Poi sentì delle grida e vide dei soldati, che correvano verso le retrovie con una barella, ove vi era un uomo ferito. Non ebbe il tempo di chiedere nulla, poiché la battaglia era incessante. Solo più tardi apprese che quell’uomo era Alessandro Poerio. Alle nove del mattino, la colonna di Morandi, si riunì con quella di Zambeccari e assieme proseguirono combattendo. Ma arrivati vicino alla piazza Principale di Mestre, per i nostri c’era una grande sorpresa. Schierati vi erano più di mille uomini con le armi puntate, raccolti dal generale Mittis e quattro pezzi di artiglieria. Il fiume Oselino divideva gli italiani dagli austriaci e un solo ponte serviva da comunicazione, ma era tenuto a guardia d’infilata, dalle artiglierie nemiche. Ed eccoli li, sembravano soldatini di piombo, ma erano micidiali. Rappresentavano la sorpresa dell’imperatore e del generale Mittis. Ai nostri capi apparvero come in un teatro, mentre la nebbia che poco prima fungeva da sipario, si dileguava sotto i raggi del sole. Giovanni li vide così, da dietro l’angolo di una casa. Immobili apparivano come fantasmi. Sembrava che dicessero ai fanti italiani: “Veniteci a prendere se avete il coraggio e avrete la vostra razione quotidiana!” “Questa terra italiana non solo raccoglierà le nostre bare, ma anche le vostre!” “Dopo di noi, questo suolo raccoglierà solo tante croci bianche!” “Addio camerati della morte!” “Siamo qui prendeteci!” Un brivido percosse il corpo di Giovanni, poiché quel paese era già pieno di morti e feriti e altri uomini sarebbero caduti da ambo le parti tra pochi minuti. Ora quei soldati in divisa, sembravano uscire, immobili, da una scatola di un carillon. Il carillon dell’imperatore d’Austria, che per sinfonia aveva quella delle armi da fuoco e della morte. E la morte era sempre lì, in agguato, con il suo profumo proveniente dal mare e dagli odori degli scoli della Laguna veneta, mitigati dal profumo dei papaveri, di altri fiori e dei campi vicini che erano lì da secoli. Giovanni quel misto di odori, lo sentiva nelle sue narici e assomigliava a quello dei cipressi e della campagna del suo paese. All’improvviso il suono reale di una tromba, lo svegliò dai suoi pensieri. I bersaglieri dai cappelli con le penne, attaccavano di corsa e alla baionetta il ponte, protetti dal fuoco di copertura di altri soldati, appostati nelle case vicine. Quel quadro a Giovanni sembrava il risveglio della vita sulla morte. La mitraglia austriaca cominciò a sparare, provocando numerose vittime, ma i nostri non si fermarono e sorpassarono il ponte, assaltando con impeto gli imperiali. Era un giorno di gloria! Un giorno di gloria eterna per chi moriva. Intanto i morti, in mezzo al fumo e alle macerie, erano dappertutto. Da un campanile, soffocata dal sibilo delle granate, una campana sinistramente suonava a morto, mentre le faceva eco il suono della tromba dei bersaglieri, che attaccavano ancora e senza sosta tra le urla. Era la storia, che con le lacrime amare scriveva le sue pagine, adoperando per inchiostro, il sangue rosso dei suoi figli. Ma la storia non si poteva fermare e come una donna austera, vestita di scuro, senza batter ciglio, andava avanti. Per Giovanni che amava l’arte, tutto quello suonava male, come il suono di una chitarra con le corde scordate. Pensava all’imperatore che prometteva pace ai suoi sudditi, ma che poi presentava sorprese, come quel giorno. Molti soldati e bersaglieri erano morti, falciati dalla mitraglia e ora quei corpi giacevano, senza vita, riversi al suolo, con gli occhi vitrei e sbarrati dal colore della morte. Ora i sopravvissuti attaccavano con tutta la rabbia che avevano in corpo, votati alla morte. Giovanni era in mezzo a quel macello e sentì ancora di più nelle narici, l’odore dei cipressi e della campagna vicina, portato dal vento del mare. I nostri alla baionetta travolsero il nemico, che fuggì lasciando sul terreno morti, feriti, armi e zaini. Anche il generale Mittis fu trascinato via dai suoi, che si fermarono, soltanto, alle porte di Treviso. Era inutile inseguirli, poiché mancava la cavalleria e altri austriaci si erano trincerati dentro le case di Mestre. Bisognava stanarli di casa in casa. La battaglia divampava di nuovo più cruenta. Per fortuna arrivava l’artiglieria trainata dai cavalli. Forse gli austriaci erano circa cinquecento. I cannoni furono subito puntati verso le case e cominciarono a sparare. Giovanni ora sentiva il sibilo e poi l’esplosione. “Zi-Zi-Zi-Zi-Zi-Bum!” “Zi-Zi-Zi-Zi-Zi-Bum!” A poco a poco, la cittadina fu un cumulo di macerie e i nostri attaccavano ogni casa diroccata. Le porte delle case ancora in piedi, furono abbattute dai cannoni e una volta fatte saltare in aria, alcuni uomini vi lanciavano dentro una carretta piena di paglia, in fiamme e dietro il fumo di questa, i bersaglieri caricavano con la baionetta, urlando. Ma il nemico resisteva e contrattaccava, sparando. Intanto i morti da ambo le parti aumentavano. Quella più che una vittoria era, veramente, il trionfo della morte. Alla fine si arresero. La colonna di sinistra ebbe più fortuna, sebbene a causa della nebbia i cacciatori del Sile che trasportavano le barche, dovettero fare molta attenzione, per evitare i bassi fondali. Le cannoniere alle 8 A.M. arrivate a tiro a poca distanza da Fusina, aprirono il fuoco, mentre i soldati, poco dopo sbarcarono e costrinsero il nemico alla ritirata verso Padova. I nostri si divisero in due colonne, una occupò Malcontenta e l’altra la Rana. La battaglia finalmente era terminata. Le perdite da parte del nemico erano ingenti. Il generale Pepe giunto a Mestre, per ragioni di prudenza, decise assieme ai suoi ufficiali di ritirarsi nelle vecchie posizioni. Giovanni, anche lui, tornava verso Venezia e vedeva quel campo immenso di morti. Il vento alzandosi, faceva volare carte e foglie. L’aria era triste e i bronzi della Basilica di San Marco, suonavano a festa. “Strano contrasto tra la vita e la morte” pensò Giovanni. Intanto passavano accanto a lui gli uomini con le barelle, che andavano a raccogliere i morti e i feriti. Quando entrò in città, le piazze erano quasi deserte, poiché la gente era in chiesa, a festeggiare la vittoria. Il vento incanalandosi per le viuzze e i canali di Venezia, aveva preso a fischiare come un immenso organo. Quando rientrò in casa, trovò un biglietto di Mo sotto l’uscio che diceva: “Sono sicura che tornerai vittorioso”. “Mi trovi in un angolo della Basilica di San Marco, ove è stata allestita una camera ardente, per la morte del poeta Alessandro Poerio”. “A presto la tua cara Mo”. Giovanni durante l’azione di guerra, aveva pensato a quella donna e gli sarebbe dispiaciuto, se i propri occhi si fossero chiusi per sempre ( cioè lui sarebbe morto) e non l’avrebbe più rivista, poiché il suo carattere era dolce, come la sua anima e i suoi passi, il suo portamento erano eleganti e fini come una vera signora inglese. “Che cosa ci sta facendo una straniera in mezzo a questo inferno?” “Pensò  che gli inglesi amano molto le bellezze d’Italia”. Disse Giovanni tra di sé. Poi uscì da casa e presto attraversò Piazza San Marco ed entrò nella Basilica. I suoi passi echeggiarono sull’impiantito di quel luogo sacro e si avvicinò in un angolo, ove in un grande letto che sembrava un catafalco e aveva le coperte dorate, vi era stesa la salma del grande eroe. Sembrava che dormisse. Giaceva sul letto immobile con la sua divisa da ufficiale ed accanto la sciabola. Varie parti del corpo erano fasciate con una benda bianca, comprese la testa e le braccia. Dalla fasciatura traspariva del sangue, quasi rosso scarlatto, come il colore delle rose sarmentose. Risaltavano i bottoni d’oro della divisa e le spalline dorate. Quattro grosse candele, montate su dei candelabri color argento, erano poste ai lati del catafalco. In una parete alle sue spalle vi era distesa la bandiera italiana con lo stemma sabaudo. La luce delle candele tremolante, frammista a quella naturale della sera, dava intorno un colore chiaro-rossastro e un’aria mistica. La gente di Venezia si accalcava intorno a questo letto, pregando. Il picchetto d’onore posto sui quattro lati della salma era formato da due bersaglieri, da un uomo della guardia civica e un altro del distaccamento dei lombardi. Giovanni si accorse che l’inglese, con un velo nero posto sul capo, pregava davanti alla salma, assieme ad alcune donne. L’uomo si avvicinò con passi leggeri, alle spalle della donna. Osservò a lungo Mo che sembrava una Madonna e poi la scena intorno. C’erano fiori da tutte le parti, posti in grandi vasi. Le campane e i bronzi ripresero a suonare, rimbombando nella grande Basilica. Ora Giovanni sentiva, nettamente, nei suoi orecchi quegli arcani rintocchi. Avrebbe voluto gridare con tutta la forza che aveva in corpo: “Suonate campane! Suonate, per sempre, poiché la vita di questo grande uomo, non è finita qui. Altri uomini verranno dopo di noi, per difendere la libertà. Ora egli giace immobile e senza vita, con il suo corpo di poeta e di uomo di cultura, straziato dalle sciabolate. È il segno, che si è battuto fino alla morte. Ha dato la vita per la sua patria. Ha saputo superare il baluardo estremo con l’atroce dolore. E ora vive in eterno! Suonate campane! Suonate campane lontane, poiché un uomo non rientra nella sua famiglia, per gioire e festeggiare questa vita. Egli giace immobile, in un catafalco di rose spinose, ma la sua anima vive in eterno. Suonate campane la volontà. Suonate campane vicine e lontane!” E intanto Giovanni sentiva nettamente il suono di quei bronzi, che sembravano scandire il tempo della morte per la vita eterna di tutti gli uomini. “Doon-Doon-Doon-Doon!” Il sole stava morendo e tutte le cose intorno a Giovanni, presero a cambiare di colore. Poi sarebbe giunta la notte, la crudele notte, che assomigliava a una grande morte e l’indomani tutti gli uomini avrebbero preso a pensare altre cose, per vivere. Mo si era accorta della presenza dell’uomo e dolcemente aveva rivolto lo sguardo a lui, prendendogli la mano. La donna piangeva per la morte di quell’uomo. Sapeva, nella sua coscienza, che un uomo grande era morto per la sua patria. Gli italiani non l’avrebbero rivisto più circolare per le piazze e né avrebbero letto le sue belle poesie. Purtroppo il massacro non finiva lì, poiché altri uomini d’ingegno, sarebbero morti. La storia, ancora una volta, scriveva le sue pagine amare, cancellando, per sempre, quelle sublimi che sapevano di arte e di scienza. Quel tramonto sembrava che ingoiasse tutto, uomini e cose. A Giovanni rimaneva di conforto solo la mano delicata di Mo. Egli la stringeva forte nella sua, dopo quella tremenda battaglia che sapeva solo di morte. Presto arrivò l’alba vittoriosa. Alle dieci del mattino, già gran parte del popolo era ammassata sul molo della Piazza Grande di San Marco. Verso le undici delle barche portarono sul posto dei grossi cannoni e altri trofei catturati al nemico. Quando furono sbarcati, molte persone fecero a gara per trascinarli con delle funi. Per molte ore tutti ridevano e scherzavano, parlando in dialetto veneziano di quella grande vittoria. Quel popolo gioiva. La piazza presto fu gremita di gente. Giovanni per alcune ore non vide l’inglese, poiché ella era andata in ospedale per lavorare. Poi la vide, sorridente, lontano, tra la folla, in fila, davanti ai trofei, dall’altra parte della piazza. Si era fatto tardi, il vento si placò e il sole, tramontando, scomparve di nuovo dietro i tetti. I colori delle cose intorno divennero di un colore azzurrino. L’uomo sentì uno spruzzo d’acqua salmastra sul viso, poiché era vicino al molo. Il mare si era mosso. Giovanni in quel momento, pensò a quando le navi veneziane tornavano ricche di bottino dalle numerose vittorie sui turchi. Egli rivide nella sua mente, quelle scene dei trionfi, con il popolo veneziano in gran pompa, come “La Processione” del Bellini. Poi arrivarono con la fanfara in testa parecchi distaccamenti di soldati che avevano partecipato ai fatti d’armi di Mestre. Ed eccoli arrivare, accolti con gioia dal popolo un distaccamento dei Lombardi, uno dell’Italia Libera, uno dei Cacciatori del Sile, un distaccamento della Guardia Nazionale e un altro del Battaglione della Speranza. Ora la gente che arrivava fin sotto i portici di Piazza San Marco, batteva forte le mani. Giovanni vide un fanciullo sorridere a cavallo di un grosso cannone e un uomo, sopra un tetto, che suonava un violino. Egli aveva la gioia nel cuore, perché amava l’inglese e da questa era contraccambiato. Mentre quella vittoria carpita al nemico, a prezzo di tanto sacrificio umano, pareva dare la speranza del domani. Intanto erano arrivate le autorità con il generale Guglielmo Pepe. In testa anche quest’ultimo sorrideva e batteva le mani. Giovanni sentiva le note della fanfara e le grida di gioia di quella gente. Rivide Mo, sorridente, tra la folla salutarlo con la mano destra alzata. Tutti erano felici e gridavano dalla gioia. Giovanni desiderava, sia per lui che per la gente di Venezia, che quel momento non finisse mai. Era per tutti come un vortice di felicità. Sembrava che i morti si ridestassero e anche loro misti tra la folla, partecipassero a quella vittoria. Solo qualche giorno dopo capì la vera realtà delle cose. Invitò la donna inglese a cena al solito posto ed ella mostrò a Giovanni una copia della Gazzetta Veneta. Vi si parlava della caduta di Osoppo. Questa  era una fortezza di proprietà dei conti di Savorgnan, alla sinistra del Tagliamento. Circa 400 fanti dovettero capitolare per la fame. In un altro articolo, si menzionavano le precarie condizioni economiche di Venezia, per cui si chiedeva al popolo, di sottoscrivere un prestito di dodici milioni, con la carta della banca locale e garantito dal Comune. In quel momento i Veneziani, erano privi del commercio e non avevano terreni produttivi. Le uniche rendite erano quelle cittadine. La vittoria di Mestre era stata grande e ora gli stati europei si ricordavano di Venezia. L’Austria, iraconda, si rivolse alle potenze mediatrici, accusando i Veneziani di aver rotto l’armistizio di Milano e minacciava delle forti rappresaglie. Naturalmente erano tutte calunnie e non teneva conto degli atti di pirateria della sua squadra, del blocco navale a danno della Serenissima e delle opere d’assedio vicino al Forte di Marghera. L’imperatore si affaccendava, come poteva, per distruggere quel popolo, ma i Veneziani, impavidi, erano sempre lì, con la loro millenaria pazienza, con i loro monumenti, con le loro calle, con la loro civiltà, con la loro storia e con la loro gloria. Giovanni pensava a tutte quelle opere d’arte intorno a lui, poiché tutta Venezia era una grande opera d’arte. Ogni palazzo, ogni chiesa, ogni via, ogni monumento, ogni dipinto, ogni mobile e ogni sedia avevano un nome ed era un’opera d’arte. Pensava all’inglese e all’amore. Pensava alla gente generosa del grande popolo veneziano, con il loro caratteristico dialetto italiano. Pensava a quel cielo azzurro, a quel mare e al vento della Laguna. Tutto questo, per lui, appariva nella sua mente, come una divina ispirazione, che gli sembrava di vedere dentro di sé, in lontananza, in un cielo sereno, dopo la tempesta nuvolosa. Questo insieme di cose per lui rappresentava un’avventura, o meglio una magnifica avventura nell’arte. Intanto Venezia si preparava a combattere la sua battaglia diplomatica. L’Impero Austriaco stava tessendo, come un ragno, una grossa ragnatela, in cui la città rappresentava una formica. Gli altri stati, pur guardandola, si lavavano le mani, in continuazione. Parlo dell’Inghilterra e della Francia. Anche se quest’ultima era travagliata da lotte intestine. Comunque il Governo Veneziano ribatteva ogni punto. Ma quella, purtroppo, era la ragione di un essere innocente, che sovente gli veniva tappata la bocca. Intanto l’Assemblea Veneziana, poiché i momenti erano difficili, eleggeva Daniele Manin come capo del potere esecutivo con il titolo di Presidente. Arrivava da Torino il generale piemontese Oliveri, che aveva l’incarico di conferire con il Governo e con il generale Pepe. Manin era in continuazione informato dal Ministro del Parlamento di Torino, Sebastiano Tecchio, del volere di Carlo Alberto, di riprendere la spada in favore della causa italiana. L’esercito veneziano contava circa 25.000 uomini, di cui 16.000 potevano combattere, mentre il resto doveva rimanere nella Laguna assieme alla Guardia Civica. Le febbri erano diminuite a causa del miglioramento igienico e delle cure prodigate ai malati. Venivano serviti pasti caldi e le uniformi erano adatte alle stagioni. L’armamento era costituito, per lo più, da un moschetto dello stesso calibro. Lo spirito militare e la disciplina erano ottimi, poiché l’esercito era formato da bravi ufficiali e gli uomini stavano sempre a contatto con una popolazione saggia e amante della patria. Il 14 marzo 1849 Manin sciolse l’Assemblea, con il grido: “Viva la guerra!” Carlo Alberto aveva di nuovo preso la spada per combattere. Una divisione fu approntata a Chioggia. A Marghera furono concentrati 3000 uomini. Un battaglione dell’Unione e un distaccamento del Corpo Lombardo si stabilirono invece a Conche. Alcune notizie recarono che il generale Mezzacapo con 10.000 uomini si era stabilito a Bologna, per attaccare il corpo austriaco a Ferrara. Il generale Guglielmo Pepe pensò di promuovere un ordine del giorno, in cui si stabiliva di congiungersi con le forze del generale Mezzacapo, dopo aspro combattimento contro il nemico, ma questo piano fu respinto dagli altri ufficiali, poiché era troppo rischioso abbandonare Venezia e operare in un terreno infido. Il 27 di mattina venne recapitato a Manin un dispaccio del generale austriaco Haynau, in cui si chiedeva la capitolazione della città, poiché una battaglia, a Novara, aveva dato seguito alla completa disfatta dell’esercito sardo. Invece l’Assemblea dei Rappresentanti di Venezia con a capo il Presidente Manin, investito da poteri illimitati, decretava di resistere all’austriaco a qualunque costo. Nella città, era anche giunta la notizia dell’abdicazione al trono di Sua Maestà il Re Carlo Alberto, in favore del Duca di Savoia Vittorio Emanuele suo figlio. Il console americano Edmondo Flash, segretario del Ministero di Washington, che dimorò in quella città tra il 1848 e il 1849, descrisse le speranze e le illusioni dei Veneziani, in quel periodo e l’amore per il loro padre Manin. Questo popolo era abituato al successo e si cullava nel vedere roseo il futuro. In città arrivavano notizie che Radetzky era stato sconfitto ed aveva avuto più di 6000 morti e 20.000 austriaci erano stati fatti prigionieri; mentre le truppe piemontesi erano entrate vittoriose a Milano. Qualcuno pensò perfino di tagliare la ritirata al generale austriaco. Per cinque giorni quel popolo ebbro di felicità, corse per le strade. Si ballava e molti si abbracciarono. Giovanni e Mo tornarono spesso a Piazza San Marco, a sentire la bella musica, suonata dalla banda militare dei Cacciatori del Sile, alternata alle note della “Marsigliese”. Parteciparono ancora, tenendosi per mano tra la folla, alla gioia di quel popolo, guardandosi negli occhi. Ora le speranze di Giovanni erano quelle di Mo. Sebbene pessimista, sperava anche lui, come molti italiani, alla vittoria di Carlo Alberto e alla resistenza della città. Se questo non fosse avvenuto, gli rimaneva soltanto la strada dell’esilio. Quindi anche lui come molti Veneziani aveva una fiducia incrollabile in Manin. Purtroppo tutte queste speranze per Giovanni cominciarono a venir meno, quando la mattina del 27 un parlamentare austriaco si presentò al Forte di Marghera, con un dispaccio datato Padova 26 marzo 1848 e firmato da Haunau, in cui, quest’ultimo chiedeva l’immediata resa della città, a favore del Sovrano Imperatore d’Austria, o la completa disfatta di quel paese. A Manin non rimaneva altro di stare sulla difensiva. Quindi ordinò al generale Guglielmo Pepe di richiamare le truppe a Venezia e di sospendere qualsiasi offensiva. Ma il popolo è il popolo e quello di Venezia lo era in modo particolare e non ci vedeva chiaro. Questa gente molto intelligente, aveva alle spalle una tradizione di vittorie e di conquiste sul Mediterraneo. Quindi forte e schietta era la popolazione di Venezia ed aveva una tradizione particolare per il commercio, per la marineria, per la politica, per l’arte e per la guerra. Questo popolo amava fortemente Manin. Quel giorno, cioè nel pomeriggio del 27 marzo del 1848, tutta la popolazione di Venezia si era riunita in Piazza San Marco (Sala del Gran Consiglio di tutti gli Affari Pubblici) e gridava forte in coro, al loro capo supremo e salvatore: “Manin! Manin!” “Manin! Manin!” “Noi vogliamo Manin!” “Vogliamo Manin!” Giovanni era tra la folla e sentiva nelle sue orecchie, assieme a Mo, a cui stringeva la mano, queste grida assordanti. “Vogliamo Manin!” Intanto la Piazza si faceva sempre più gremita di folla. Giovanni, allora, disse alla sua compagna: “Andiamo al Caffè Quadri”. “Lì staremo meglio”. “Hai ragione”. “Non riesco a camminare”. “C’è troppa gente, qui”. Rispose la donna inglese. I due, poco dopo raggiunsero il luogo ma a Mo si ruppe un tacco della scarpa e lei lo aggiustò alla meglio. Trovarono un posto a sedere vicino a un tavolo e ordinarono due bibite. Da lì, ora vedevano quella processione, di uomini vecchi e giovani, di donne e bambini, invocare, come in chiesa, il loro Padre e Salvatore. Il trambusto di voci sonore, verso sera, era molto forte. Tutta Venezia era lì, accorata, a chiedere aiuto. La folla trasmise nell’animo di Giovanni e in quello della donna, quella strana attesa. Sembrava una preghiera. Una grande preghiera. Fatta di tenere voci, quasi angeliche: quelle dei bambini e delle donne,  quelle degli uomini, dei ragazzi e dei soldati misti tra la folla. Giovanni desiderava la pace per sé e per la sua compagna, come per il Popolo Veneziano che amava, perciò anelava quell’evento. Alla fine il Capo Supremo venne, comparendo al solito balcone e la folla lo applaudì incessantemente: “Viva Manin!” Gridò. “Viva il nostro Capo!” “Evviva! Evviva!” Allora, anche i due rivolsero il loro sguardo, verso quella piccola figura sul grande balcone. E l’uomo cominciò a parlare: “Popolo Veneziano, soldati che gremite questa Piazza! So, con quanta fede avete aspettato le mie parole! Conosco perfettamente il vostro onore di cittadini e di soldati onesti! Mi fido di voi, perché la vostra fede in me è incrollabile e il vostro sacrificio estremo! Per questo posso contare su di voi in ogni istante della mia vita! La mia sorte è legata alla vostra sorte! La nostra è una piccola repubblica! Il nostro esercito non è potente come quello imperiale, ma è fatto di tanti uomini valorosi! Vi chiedo in questo momento la vostra massima partecipazione! Ognuno di voi deve stare al proprio posto! E affrontare la situazione con sacrificio! Anche se questo posto dovesse essere un umile posto! Perché tutti voi: uomini e donne, soldati e bambini, formate il Gran Popolo Veneziano, destinato a combattere, con fede, quel famigerato nemico, per la vittoria finale! Dunque, ascoltate, ogni giorno, ogni ora e ogni momento, non gli ordini, perché voi non meritate questo, ma la preghiera affinché tutto vada nel migliore dei modi! Per adesso non ho ancora ricevuto notizie ufficiali! Ma se ci saranno, sarete subito informati! Tornate quindi tutti alle vostre case e aspettate con fiducia!” Così dicendo Manin si ritirò nelle sue stanze, scomparendo dal balcone. Ma quelle poche parole non convinsero i Veneziani, che rimasero alquanto perplessi, tanto più che si aprì un altro balcone, di fronte a quello che si chiudeva ed esattamente sopra il vecchio Caffè Quadri, cioè sopra Giovanni e Mo.

Parte III

Un ufficiale cominciò a declamare, ad alta voce, una lettera arrivata da Milano il 26, che non parlava affatto della disfatta di Carlo Alberto, ma di buone notizie. Per cui in città non si sapeva a chi dare retta. Molti cittadini rimasero a commentare i due discorsi nelle piazze, per tutta la notte, con la speranza che qualcuno portasse delle buone nuove. Giovanni e Mo tornarono a casa e commentarono anche loro gli eventi. L’inglese aprì una scatola di biscotti e lui comprò una bottiglia di vino rosso. L’uomo guardò pensieroso fuori dalla finestra, ma era già scuro. Mo mise tutto su di un tavolo, al centro della stanza e aprì la finestra. Arrivò dentro subito un leggero vento. Lì accanto alla donna, Giovanni si sentiva bene. Sembrava che quell’atmosfera fosse colorata di blu e che entrando nel suo animo, desse la sensazione di morbido. Ma la sua testa era un groviglio di pensieri, dovuti anche dal suo carattere. In effetti si sentiva inquieto, gli sembrava di stare sulla bocca di un vulcano che da un momento all’altro sarebbe esploso. Perché tutto questo? Giovanni sapeva benissimo che le sue sorti, cioè quelle di uomo libero e di esperto d’arte, erano legate al destino di Carlo Alberto. Comunque era molto responsabile. Quelle parole di Manin e dell’ufficiale lo tormentarono tutta la notte, poiché egli era un soldato e un soldato di quei tempi per sopravvivere, doveva fare continui spostamenti da un luogo all’altro e in precarie condizioni. E così era la situazione per molti altri italiani. In ogni patriota c’era sempre l’ombra dell’Imperatore d’Austria. Ogni azione e ogni pensiero erano quindi condizionati. Per vivere, durante la giornata, le azioni erano tante. La paura che un giorno, uno potesse essere chiamato “bandito” imperversava, come del resto fu chiamato lo stesso Garibaldi. Quindi Giovanni oltre ad avere la preoccupazione del suo lavoro, non poteva essere escluso dalle altre come italiano. La donna lo distolse dai suoi pensieri, accarezzandogli la mano. “Siediti e mangia che poi andiamo a letto”. Disse lei. “So a che cosa pensi”. “Ti capisco”. “Possiamo rimediare”. “Vedi io a Londra nel mio conto corrente possiedo una discreta somma di denaro”. Ma Giovanni in quel momento pensava ad altro. “Mi senti?” Continuò a dire lei. “A che cosa pensi?” “Si può sapere?” “Tante cose” rispose l’uomo. “Per primo non riesco a capire Manin”. Poi i due si sedettero accanto al tavolo e presero a mangiare. “Sono molto buoni questi biscotti” disse Giovanni. “Sono riuscita a conservarli”. “Sai di questi tempi…” “Li ho comprati a Bristol”. “Ho anche qualche tavoletta di cioccolato inglese nell’armadio e in cucina delle alici”. “Ma voglio parlare di te” disse in fretta la donna. “Secondo me per te, il posto migliore è Londra”. “In questo momento molti antiquari e collezionisti, come alcuni editori, cercano degli esperti d’arte del Rinascimento Italiano”. “Poi Londra è sempre un buon rifugio per voi italiani”. “Accidenti!” Rispose Giovanni. “Voi inglesi siete sempre in contraddizione con voi stessi!” “Non v’importa della causa veneziana, ma amate l’Italia e accogliete, sempre, i nostri profughi!” “Perché?!…” “Perché?!…” “Si può sapere, che cosa ci fai tu qui?!…” “Si può sapere che cosa ci stai a fare in un paese che non è tuo, a curare malati e feriti?!…” “Vuoi che ti legga i dispacci provenienti da Londra?!” “Ebbene sono sempre meno rassicuranti!” “Lasciami le spalle!” “Ora basta!” “Parlavo per il tuo bene e non per il mio!” “Io sono sempre una cittadina straniera e godo di privilegi!” “In qualsiasi momento posso fare i bagagli!” ribatté Mo, divincolandosi dalla stretta dell’uomo. “E allora fai questi bagagli!” Disse Giovanni. “Scusami Mo”. “Io non volevo…” Proseguì a dire l’uomo. Ma l’inglese era molto offesa. “Torna nella tua casa Giovanni e dormi là questa notte!” “E va bene me ne vado, così tu puoi dormire tranquilla!” Rispose l’uomo andandosene via e sbattendo la porta. Ma la donna si pentì subito e lo richiamò: “Torna Giovanni, ti prego!” Gridò, lei sulle scale. Ma l’uomo era già entrato nella propria casa ed aveva richiuso la porta dietro di sé. Ora i due, nel dormiveglia, pensavano l’uno all’altro, con rabbia e malinconia, per la lite in corso. Sembrava che un filo si fosse spezzato. L’uomo stringeva forte il cuscino a sé. Quella era una brutta notte per i sentimenti. Non avrebbero voluto litigare e questo era, per lo più accaduto a causa delle circostanze. Tanto più che quella del 28 fu una brutta notte. La città per l’alto comando austriaco era come una bella torta, a portata di mano e le artiglierie erano puntate su di essa. Bastava solo un ordine per distruggerla e così fu. Il cielo, all’improvviso, si colorò di rosso e una pioggia di fuoco cadde su Venezia. Le bombe scoppiarono da tutte le parti. Giovanni e la donna sentivano sopra le loro teste il triste fischio delle granate e poi l’esplosione, mentre la gente gridava nelle vie e nelle piazze e intanto dalle finestre entrava il bagliore delle granate e del fuoco. Allora, i due corsero l’uno verso l’altro e sul pianerottolo si strinsero e si baciarono forte. “Ti amo” disse Giovanni, “anch’io”  rispose Mo. “Devo fare il mio dovere e tornare all’ospedale!” Disse lei. “Là, hanno sicuramente bisogno di me”. “Devo andare”, “anch’io” rispose l’uomo. Poi scomparvero nel buio della notte delle esplosioni, verso la loro sorte. L’inglese, per raggiungere l’ospedale, correva tra la folla, che gridava di spavento a causa dello scoppio delle bombe che facevano saltare in aria le piccole case. Vide una bambina di pochi anni, piangere, seduta tra un cumulo di macerie, la prese in braccio e la portò via con sé. Giovanni assieme alla Guardia Civica prese ad aiutare con dei secchi d’acqua, una folla di uomini e donne, a spegnere un incendio, in una casa vicina diroccata, mentre altri con delle barelle trasportavano morti e feriti. In quel momento l’uomo pensava alla donna  e la notte era cruenta. Il giorno dopo Piazza San Marco aveva cambiato aspetto. Le vie limitrofe erano deserte. Una gran folla era riunita in quel luogo di speranza e la banda non suonava più. Tutto era triste. Non si ballava e non si cantava. Le campane delle chiese suonavano a morto. Molta gente piangeva accoratamente per le cose perdute. Il vento spazzando tutto, aveva ripreso a fischiare per la Piazza e per le vie e sembrava l’ululato della morte. Mo e Giovanni tornarono al vecchio Caffè Quadri a sorseggiare dell’acqua dolce. Giovanni vide ancora quella folla triste, che con ansia, aspettava una risposta, tra il vento vorticoso e le cartacce che andavano in aria. Comprò la Gazzetta di Genova e lesse la brutta notizia della disfatta di Carlo Alberto a Novara. Quando rifecero la strada per tornare a casa, videro un attacchino mettere sui muri un manifesto, in cui si spiegavano le funeste sorti italiane. Fino a quel momento, anche se pessimista, Giovanni come molti italiani, cercava di rifiutare quegli eventi. Ma le condizioni a quei tempi erano assai tristi e tutto aveva preso corpo dentro di sé. I malanni avevano minato il suo spirito da qualche tempo. L’unica speranza del domani era il suo lavoro sull’arte, ma molti eventi contrastanti lo preoccupavano. Pensava all’esilio o alla prigionia. Questi pensieri, lo facevano cadere spesso nel suo incubo, nella depressione e vedeva una sentinella armata di fucile, osservarlo alla fine di un muraglione. Ma in lui c’era sempre una forza vincente, di trovare uno sbocco a ogni stato di cose. Doveva battersi con coraggio e perseveranza. Il generale Haynau meritava una risposta. Il lunedì del 2 aprile, Manin convocò l’Assemblea nella Sala del Palazzo Ducale. Tutti lo attendevano, in profondo silenzio, nello storico luogo. Il Dittatore entrò e con dignità salì nella tribuna d’onore. Subito cominciò a parlare con un tono di voce bassa: “Conoscete già le notizie”. “Che cosa decidete?” “Il Governo di Venezia deve prendere una decisione”. “Siete disposti alla resistenza?” “Si, siamo tutti pronti a resistere ad ogni costo!” “Volete, quindi, darmi dei poteri senza limiti, per far fronte al nemico?” “Si, noi lo vogliamo!” Fu la risposta dei presenti. Poi votarono, per giuramento, con una mano alzata verso il cielo il decreto. Questo fu un atto solenne e dava prova del grande valore del Popolo Veneziano, che per più di mille anni aveva dettato le leggi. Ricordava la presa di Costantinopoli, la “Lega di Cambray”, la vittoria di Lepanto, le lotte contro Pipino, le lotte contro Barbarossa, contro Genova e i Turchi. Lo stesso decreto, di resistere ad ogni costo, fu inviato come risposta al nemico. All’uscita dall’Assemblea, il Dittatore e i rappresentanti furono accolti con entusiasmo da tutto il popolo e dalle autorità civili e militari. Mentre gli eroi della resistenza misero una coccarda rossa alla bottoniera. Nel punto più alto del campanile della Basilica di San Marco fu innalzata una grandissima bandiera dal colore rosso della morte. Giovanni e Mo stringendosi forte la mano, dalla Piazza di San Marco, videro questo vessillo che si innalzava al di sopra dei tetti e delle chiese di Venezia. L’uomo pensò che quello era il vessillo della libertà difesa ad ogni costo, ma quante spose e madri avrebbero pianto?… Così in alto, in quel momento, poteva essere visto dal nemico. Assomigliava ad una cometa che segnava il destino della città. Forse appariva come un fuoco perenne, posto in un tempio pagano e indicante al navigante di tenersi lontano da quel luogo pericoloso. La folla, che gremiva la Piazza, accolse con stupore quella bandiera e da quel momento ognuno sapeva la propria sorte. Giovanni la guardava, su in alto, che sventolando si stagliava contro il bel cielo azzurro. Pensò al rosso della morte e al colore azzurro della libertà, che gli uomini sempre sognano. Sentì nelle sue orecchie, il grido di meraviglia di quel popolo: “Oooooooo!” Anch’egli, in quel momento, vicino alla sua compagna, sentì sopra le sue spalle e nel suo animo, l’impotenza di fronte all’Imperatore d’Austria e ai suoi 50.000 uomini, che si preparavano a cannoneggiare e invadere la città. Ma quella gente, innocente, continuava a guardare con meraviglia, in quel giorno, la bandiera. Vide quegli occhi, brillare, mentre guardava lontano, nella luce del cielo, il vessillo rosso come le rose sarmentose, poste a capo del letto di morte, del poeta napoletano Alessandro Poerio. In quel momento, anche lui uomo ramingo, guardando il cielo azzurro, pensava alla libertà, ma aveva in tasca la Gazzetta di Genova, che da poco aveva letto e le notizie non erano per niente rassicuranti. Si commentava la rovina di Carlo Alberto; l’occupazione imminente delle truppe austriache di Parma, Modena, Bologna, Ferrara e della Toscana; l’intervento futuro dell’esercito francese e napoletano a Roma, ove erano chiamati dal Papa, per far cadere quella gloriosa Repubblica. Gli articoli finivano nel descrivere l’abbandono certo da parte dell’Inghilterra e della Francia, di Venezia, ormai circondata da ogni parte dal nemico. Giovanni sentiva, dentro di sé, quello stato di cose e il desolante abbandono della città, come l’umidità della Laguna che gli entrava nelle proprie malandate ossa. Lo vedeva, assieme alla morte, nei fiori e nelle cose che galleggiavano nella putrida e verdeggiante acqua. Lo vedeva nei vortici di robaccia, che in quei giorni formava il vento.

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