Intanto il Generalissimo, facendo su e giù nel suo quartier generale, minacciava lo sterminio. La sua volontà era quella di distruggere i ribelli italiani. Il più potente non doveva soccombere. Ormai quella macchina di distruzione si era messa in moto. Sebbene gli imperiali si fossero impadroniti di Custoza, la ritirata fu ordinata. I sardi avevano il loro quartier generale a Marmirolo. Carlo Alberto fu convinto dai suoi, di trovarsi di fronte ad un esercito di circa 20 o 25.000 uomini. Quindi egli radunò a Villafranca altrettanti uomini. Questo fu un grande errore, poiché bastava togliere il blocco a Mantova e così riunire 50.000 soldati. Non si doveva sottovalutare la forza preponderante del nemico ed imitare Napoleone, che aveva operato in passato in quei luoghi. Diverso sarebbe stato il destino degli italiani il 25 luglio. Intanto il De Sonnaz invece di ingrossare l’esercito, operava a Borghetto, per facilitare un attacco a Valleggio. Radetzky, con le sue avanguardie, si dirigeva verso Salionze. Le sue truppe, si portavano tutte nella medesima direzione, lasciando in questo modo scoperti il fianco sinistro e la retroguardia agli attacchi dell’avversario. Mentre l’esercito austriaco marciava per accerchiare l’armata italiana a Villafranca dove si era recato il Re e i duchi di Savoia e di Genova, si concentrarono molte forze e all’una e mezzo P.M. del 24 luglio, le brigate guardie Cuneo e Piemonte cominciarono a muoversi verso il nemico. Quando arrivarono nella località Pozzo Moretto, la brigata guardie attaccava gli austriaci, mentre l’altra brigata Cuneo avanzò verso il Vallo di Scaffalo e la brigata Piemonte, fiancheggiata dalla cavalleria, assaltava Rerettaria. La battaglia durò parecchie ore, tra il fragore delle granate e delle armi che soffocavano lo scalpitio dei cavalli sui campi. I fanti italiani, ripetutamente, attaccavano alla baionetta, tra la polvere che si sollevava da terra e il fumo degli spari. Gli uomini gridavano da ambo le parti e ogni tanto sembrava di scandire il tempo, a questa sinistra sinfonia, il suono lontano di una tromba. Ma in realtà, la guerra non è come si scrive sulla carta, poiché a volte la mischia era feroce e le divise scure degli italiani, per ore, si stagliavano contro quelle chiare degli austriaci. Gruppi dei nostri si fermavano dietro gli alberi, o dietro i cespugli nei boschi, o dietro le case diroccate, vicino al nemico e allora cominciavano con quest’ultimo, in uno spazio ravvicinato, uno scambio di fucilate e ripetutamente, gli assalti alla baionetta. Il risultato era quello di tanti morti e feriti, che si lamentavano ovunque. Ma la battaglia continuava e sembrava che la natura fosse scomparsa, soffocata da quest’ultima. Quel giorno fu favorevole ai nostri. Le perdite del nemico furono moltissime e i prigionieri più di 1800, tra cui 18 ufficiali. Quelle truppe formavano la retroguardia austriaca ed erano partite il giorno prima da Legnago, per unirsi con il loro esercito. Radetzky sorpreso da quella disfatta, cercò di mantenere la calma, ragionando e meditando su quello che avrebbe dovuto fare nelle ore successive. Per prima cosa, inviando dispacci in tutte le direzioni, radunò il suo esercito tra Valleggio e Custoza. Quindi il giorno seguente poteva disporre di circa 55.000 uomini, 80 pezzi di artiglieria e moltissima cavalleria. Tutte le truppe furono disposte su di un fronte non superiore ai 10 chilometri. Questa mossa fu degna di un grande stratega. Comunque non sapeva di trovarsi di fronte a soli 20.000 uomini, come gli italiani non sapevano della forza poderosa dello straniero. Il giorno seguente solo tre brigate italiane, coperte dalla brigata Aosta e da poca artiglieria e cavalleria, lottarono per difendere Custoza. Si copersero di gloria il Re e i suoi figli. Il Duca di Savoia alla testa della brigata guardie, assalito da due brigate austriache e numerosa artiglieria, rigettava il nemico con la baionetta e solo quando cadde la notte, tutti si ritirarono ordinatamente. Con ciò le perdite del nemico superarono quelle italiane. I sardi levarono il blocco a Mantova e si concentrarono a Goito, mantenendo la difesa dietro l’Olio. Dopo un accanito combattimento di tre giorni, l’armata di Carlo Alberto fu completamente distrutta”.

A Venezia il Cavalcaselle assieme alla popolazione apprendeva l’infausta notizia di Custoza. In quelle giornate il tempo non era bello nella Laguna. Dense nubi frastagliavano il cielo azzurro e il mare era mosso. Sembrava che la natura accompagnasse la tristezza degli uomini. Le campane suonavano a morto. In questa terra, non tutti gli eventi sono felici e per ottenere la vittoria finale, ci sono sempre molti ostacoli da superare. Difettava molto a quei tempi, il modo di reclutare gli uomini dell’esercito italiano. Manin era l’unica persona, che poteva salvaguardare il suo paese dai pericoli e in disparte, in seno alla sua famiglia, seguiva gli eventi. Il 27 luglio mentre l’esercito sardo prendeva posizione sull’Olio, il Parlamento Subalpino decretava la fusione di Venezia con gli stati sardi e mandava in quella città tre commissari con aiuti economici. Il 7 agosto usciva un proclama dei nuovi governanti, nel quale, si decretava la libertà di stampa, il diritto di associazione, la guardia nazionale e altri articoli che regolavano il potere delegato, in nome di Carlo Alberto. Il Vessillo di Venezia doveva essere la bandiera tricolore con lo stemma dei Savoia. Purtroppo l’esercito austriaco era forte di 60.000 uomini e Carlo Alberto fu costretto a passare l’Adda. Giunto a Milano mandò degli ambasciatori in Francia, per chiedere aiuto a quella nazione. Cavaignac, presidente della Repubblica Francese si rivolse all’Inghilterra, in modo che quest’ultima si unisse a lui, per trattare la questione italiana attraverso il progetto Hammelauer. Quest’ultimo non era più attuabile, poiché le Aquile Imperiali, ormai, stavano conquistando la Lombardia. In poche parole si attuava il perenne gioco dell’umanità, poiché l’acqua, come sempre, va al mare. Le nazioni potenti in Europa non se la sentivano di aiutare l’Italia, in precarie condizioni politiche ed economiche. Carlo Alberto braccato da tutte le parti, si ritirava oltre il Ticino e non volle promuovere a Milano una guerra di barricate, che si sarebbe conclusa, sicuramente, con uno sterminio di massa. Sicché il giorno 9 agosto concluse il famoso armistizio, tramite il generale di stato maggiore Salasco, da cui prese il nome. D’altronde  Milano scarseggiava di munizioni, poiché erano state portate a Piacenza, ove era stata decisa la ritirata. Nel frattempo Venezia, in modo rigoroso, chiudeva tutti i passaggi della Laguna e creava un comitato di sicurezza. Gli Stati Uniti e la Confederazione Svizzera riconobbero il governo di Venezia e mandarono agenti presso quest’ultima. I francesi mostrarono della simpatia per la causa degli italiani. Il console inglese Dawkins, invece, fu un nemico acerrimo, mostrando simpatia per l’Austria. Non lusinghiere erano le finanze della città. Per fortuna la posizione topografica di Venezia, con i suoi 53 forti e i suoi valorosi abitanti, le permisero una gloriosa difesa. Venezia è il più bel gioiello d’arte dell’Adriatico. La città sta nel mezzo delle lagune, che da ogni parte l’adornano. I suoi meravigliosi palazzi e i templi, furono costruiti quasi sul pelo dell’acqua, in numerose piccole isole. I suoi canali sempre solcati da barche, fungono da strade principali. Vie minori a fianco delle costruzioni, lasciano camminare i suoi abitanti. La città è unita alla terra-ferma, mediante un lungo ponte della strada ferrata, di circa 4 chilometri di lunghezza, che attraversa il Forte di Marghera e arriva nella cittadina di Mestre. A quei tempi tutte le fortificazioni furono armate da potenti batterie. Numerose cannoniere e piroghe, difendevano l’imboccatura dei canali, che venivano sbarrati da grosse catene di ferro. Circa 20.000 soldati erano sparsi nei forti e nelle città della Laguna. Questi venivano disciplinati dal Ministro della Guerra. Quindi Venezia, come una grande piazza d’armi era al centro di questo sistema difensivo. Purtroppo ogni guerra costa denaro e in città questo scarseggiava moltissimo. Quella fu l’occasione per i veneziani, di dimostrare tutto il loro amore per la patria. Comparì un decreto per cui i cittadini dovevano portare entro quarantott’ore, tutti i loro oggetti d’oro e d’argento, per essere convertiti in numerario. Veniva rilasciata loro una ricevuta, con la quale il governo si obbligava a restituire un rimborso a guerra finita. Ogni persona rispose all’appello ed ecco i ricchi e i poveri consegnare i loro averi. Fu anche costituito uno squadrone di cavalleria, con l’incarico di perlustrare il lido, ove si temeva uno sbarco. Mentre una Divisione, divisa in brigate, doveva attaccare il nemico sulla terra-ferma. Il generale che comandava tutte le truppe era Guglielmo Pepe. Ogni soldato conosceva la fama di questo veterano della libertà. Ogni soldato aveva fiducia estrema in lui. Comunque il lungo esilio sofferto, poiché il Borbone Re di Napoli lo rivoleva in patria e le sciagure, avevano minato il suo fisico e la sua mente. Sebbene ciò, egli fu di una volontà assoluta e di una fede ardente. Sicché il governo di Venezia, trovò in lui un importante ausiliario, anche quando non lo assecondava. Molte volte nascose dentro di sé i suoi disgusti, perché attaccato, nella sua autorità, dal Ministro della Guerra. Egli con i suoi numerosi ordini del giorno, seppe infondere disciplina e fiducia ai suoi soldati. Volle al suo stato maggiore il capitano di artiglieria Gerolamo Ulloa, che lo aveva seguito assieme ad altri ufficiali napoletani in esilio. Egli avrebbe voluto, sempre, combattere, anche quando le condizioni diplomatiche non lo permettevano. Guglielmo Pepe aveva un animo generoso per promuovere gli ufficiali meritevoli e guardò sempre con avversità, gli austriaci passati nelle nostre file, sebbene questi si mostrassero esperti. È difficile capire a distanza di tempo l’animo di questo grande condottiero, poiché sicuramente, per la sua condizione di esiliato e contrariato molte volte dal governo, sebbene aiutato dai suoi fidi, una coltre scura era calata su di lui, che lo rendeva isolato dall’esterno e per risolvere ogni problema, date le circostanze, non aveva altra scelta che quella di combattere, ad ogni costo, contro un nemico superiore. Molti pensieri da tempo lo tormentavano e la sua mente era densa di nubi. In quell’intricata foresta doveva andare avanti, per trovare il giusto sentiero che lo avrebbe portato alla vittoria finale. Ma le forze in campo erano tante. Non solo quelle materiali, ma anche quelle morali. Di fronte a tutte queste avversità, si trincerò dentro alla sua fede e attraverso gli ordini, seppe proseguire. L’estuario veneziano fu ripartito in quattro comandi, secondo i punti principali. Solo più tardi, il comando del Lido, essendo quest’ultimo molto esteso, fu diviso in due, per controllare meglio la zona. Il più importante era quello situato nella fortezza di Marghera. Veniva poi quello di Chioggia. Gli altri due erano a Murano e Burano. Questi comandi dipendevano dal triumviro Cavedalis e dal generale in capo. È ovvio che era stato creato tutto un sistema di difesa, intorno ai forti principali, attraverso altre fortificazioni minori. Il contrammiraglio Marsich comandava la guardia civica. Questa ebbe un compito molto importante, poiché oltre a salvaguardare la città, veniva inviata a presidiare i forti più vicini. La flotta veneta era stata tutta catturata a Pola. Erano rimaste tre corvette, due brick e un pessimo vapore. La marcia austriaca disponeva di un numero altamente superiore di mezzi armati. I sentimenti dei veneziani si ispiravano alla nazione italiana. Ma la guerra non si fa solo con i sentimenti e con il cuore. Sicché il governo di Venezia assieme al rappresentante della Lombardia, Cesare Correnti, chiese agli italiani un prestito di 10 milioni, ripartito in 20.000 azioni, da 500 lire ciascuna. Quel denaro serviva per resistere all’invasore. Pochi italiani acquistarono quelle azioni, sebbene ben garantite. Partiti, poi, calunniandosi tra di loro, non contribuirono all’unità nazionale. Tutto questo era conseguenza delle continue disfatte. Quindi molta gente pensò di non rischiare i propri averi per una causa perduta. Le conferenze di Innsbruck, erano ispirate a questi ultimi eventi che davano credito agli austriaci. Fra tutte queste confusioni il 9 settembre la flotta sarda abbandonava Venezia e riparava ad Ancona. Per sopperire ai bisogni, fu decretato e concluso, un prestito di 3 milioni, con varie case di Venezia. In seguito portato a 5 milioni. Intanto l’inverno si avvicinava, e bisognò vettovagliare l’esercito di indumenti pesanti. Intorno ai forti di Marghera e di Chioggia, l’aria era malsana, a causa delle paludi e delle acque stagnanti. Aumentavano i casi di malaria. Il numero dei malati aumentò sempre più e gli ospedali non bastavano ad accoglierli. Il governo, allora, si rivolse alla carità cittadina e non rimase deluso, poiché la popolazione offerse materassi e biancheria. Furono allestiti oltre 4000 letti. Lo slancio dei cittadini fu sempre totale. Povere famiglie si spogliarono dei loro averi, per aiutare i difensori di Venezia. Si provvide anche alla creazione di ambulanze, in caso di ripresa dell’offensiva fuori della Laguna. Il giorno 18 fu dichiarato il blocco  internazionale nella città di Trieste. Il Commercio era stato avvertito che le navi dirette a Venezia sarebbero state respinte se estere e di buona preda se italiane o austriache. Intanto a poca distanza dai lidi veneziani, era ancorato il vascello Jupiter e la fregata Psychè, entrambi di nazionalità francese, ma sotto il tiro dei loro cannoni, depredavano tutte le barche dirette a Venezia. Il Cavalcaselle si trovava anche lui in queste situazioni. Alloggiava in una stanzetta vicino a Piazza San Marco. Anche se viveva un momento così difficile, in quella città, aveva trovato se stesso. Infatti quelli erano i luoghi della sua gioventù. Ricominciò a studiare e a frequentare la quadreria dell’Accademia. Ma i tempi non erano più quelli di una volta. La guerra aveva trasformato il suo animo, come quello di tanti altri uomini. Quella città, in molti punti, aveva cambiato aspetto. Plotoni di soldati armati attraversavano le piazze. Sacchetti di terra e tavole, erano stati posti all’ingresso delle caserme e sui bastioni dei forti; ove facevano capolino le bocche da fuoco dei cannoni. All’alba e verso sera si udiva lo squillo delle trombe. Il bisbiglio di quella gente era sempre concitato e gli sguardi impauriti. I colori erano diventati di una strana tonalità grigia, come quella del tempo, che annunciava l’inverno incipiente. Giovanni era triste e solo, in quella città che sembrava abbandonata da tutti. Già a Treviso e a Vicenza si era trovato sperduto e isolato contro un nemico assai superiore. Ora le cose erano diventate ancora più difficili e sembrava che Venezia fosse stata dimenticata dal mondo intero. Tutta l’arte di cui era ammantata quella meravigliosa città, era in pericolo. Quando suonava una campana o vedeva una sentinella, aveva uno strano presentimento. Come se qualcosa stesse per morire in lui e nel mondo che lo circondava. Quelle erano giornate autunnali, in cui il cielo era denso di nuvoloni, il vento faceva alzare da terra la polvere e le foglie ingiallite e morte, come il suo animo. Il mare grosso, poi, ruggiva e batteva contro la scogliera. La risacca, sul lido, con la sua sinfonia, aveva preso a cadenzare il tempo. “Ma quale tempo?” Pensava Giovanni. “Forse esiste un tempo?” “Qui siamo tutti prigionieri!” “Prigionieri della vita!” “Prigionieri di noi stessi!” “Prigionieri di un mondo che forse ci odia!” E allora cadeva nella sua depressione quotidiana. Sembrava tutto perso, mentre lo tormentavano i pensieri e i grossi nuvoloni carichi di pioggia passavano nel cielo; eppure tutte quelle belle cose, compresa l’aria che respirava, erano ancora lì, in quel bel posto, che sapeva di romantico. I quadri, le chiese ed ogni cosa che aveva studiato, come “La Processione a Piazza San Marco” stupenda opera del Bellini, erano vicino a lui. Ritornò, quasi ogni mattina, alla quadreria dell’Accademia, ad osservare e a studiare quei meravigliosi dipinti. Giovanni, di solito, nel pomeriggio scriveva o disegnava nella sua cameretta. I colori dei quadri non gli sembravano più gli stessi. Il suo animo gli faceva vedere tutto più cupo, perfino i rossi. Ma il pensiero non si poteva cambiare ed egli portava la divisa militare. Ed ecco, che quella Processione di Gentile Bellini, gli parve muoversi, in un’altra dimensione, che sapeva d’irreale. I candelabri si accesero e il fumo e l’incenso pervasero l’aria. Un coro di voci entrò nel profondo del suo animo e quello non era un inno di vittoria, ma assomigliava ad un “Te Deum”. “Maledetta la guerra e chi l’ha inventata!” Pensò tra se. Lui non poteva cambiare nulla perché l’uomo era così. Pensava, ormai, anche alla morte, ma non sapeva dove lo avrebbe colto. Forse in quella città e sarebbe stato sepolto con tutte quelle opere d’arte, che sapevano di antico. Spesso pensava di morire. Infatti la morte l’aveva già vista. Ora se la immaginava come l’acqua stagnante e putrida di alcuni angoli di quei canali. Quell’acqua aveva un colore verde cupo ed erbe e fiori assieme alla merda e alla sporcizia, galleggiavano sopra di essa. A volte sentiva un odore pestilente nell’aria. La flotta austriaca, ancorata lì vicino, avrebbe presto aperto il fuoco con i suoi micidiali cannoni, sopra quei tettucoli, fatti di terracotta. L’artiglieria da campagna avrebbe fatto il resto. Sì, sarebbe stato sepolto sotto il catafalco di opere d’arte, come un Re. E intanto la bandiera tricolore sventolava ancora. Una mattina di sole, mentre passeggiava, in un viale accanto al Canal Grande e non lontano da Piazza San Marco, vide una donna giovane, seduta su di una panchina. Aveva un dolce sorriso sulle labbra. Il suo corpo era esile ed i capelli rossicci a caschetto. Indossava la divisa blu da crocerossina. Aveva una grossa croce rossa di pezza, cucita sul petto e la mantellina dello stesso colore del vestito e calze bianche. Si ricordò di averla già vista. Abitava in una soffitta sopra di lui e spesso sentiva i suoi passi leggeri. La incontrava quasi ogni mattina, sulle scale, quando lei andava al lavoro. Era inglese, prestava servizio assieme a delle crocerossine americane in un vicino ospedale. Quella donna aveva il sorriso della speranza e gli ispirava fiducia. “Good bye” disse, sedendosi accanto a lei. “Good bye” rispose lei. “It’s a beautiful day “ soggiunse Giovanni. “Yes” disse lei. L’inglese stava leggendo un libro italiano, che descriveva la città lacustre. “Non parlo molto bene la vostra lingua”. “Spero sempre che qualcuno mi aiuti” soggiunse lei. “Allora ci aiuteremo” disse Giovanni. “Anche io ho bisogno di imparare la lingua Inglese”. “Forse dovrò andare a Londra”. “Io sono nata a Plymouth, ove vivo”. “È un posto tranquillo”. “Londra è troppo movimentata e noi inglesi amiamo il mare”. “È strano incontrare una donna inglese da queste parti, con l’aria che tira”. “Si lo so”. “Ma io amo il dovere, l’Italia e l’Arte Italiana”. “Allora andremo d’accordo, è la seconda persona inglese che incontro e mi dice le stesse parole” disse Giovanni. “Spero di non doverla deludere” rispose la donna. “Lei è molto calma”. “Ma molte cose non dipenderanno da me” soggiunse Giovanni. “Speriamo per tutti e due” ribatté ella. “Lei è cattolica?” “No, sono protestante”. “Che cosa sta leggendo?” “Un vecchio libro italiano che parla di Venezia”. “Sono arrivata alle famose Scuole Veneziane”. “Sono importanti” disse Giovanni. “Anche gli stranieri, negli anni passati hanno avuto bisogno di queste Scuole”. “Famose sono state le due Scuole dei Bergamaschi, a San Silvestro e a San Giovanni di Rialto”. “Lo statuto delle scuole professionali contemplava la visita agli ammalati e la sepoltura dei morti”. “Ma insistevano più sulla condotta morale”. “Per esempio?” Chiese con garbo la donna inglese, con un leggero sorriso, mentre un raggio di sole illuminava le sue guance rosse quasi come il corallo e il vento scompigliava i suoi capelli. “Per esempio i confratelli dovevano redimere i colleghi che si erano lasciati andare commettendo fornicazione e adulterio”. “Dovevano anche redimere quelli che tenevano presso di loro donne meretrici e concubine”. “Questi membri pregavano e si comunicavano”. “Tutto questo li avvicinava alle Scuole Grandi”. “Interessante” rispose l’inglese. “Ma Lei che mestiere fa?” “Sono un esperto d’arte”. “Capisco”. “Mi scusi se non mi sono presentato prima”. “Il mio nome è Giovan Battista Cavalcaselle”. “Il mio è Maureen Anderson”. “Per gli amici Mo”. “Allora ciao Mo” disse Giovanni, sorridendo e stringendo la mano alla donna che contraccambiò. “Se almeno sapessi quanto tempo dovrò rimanere qui?” disse Mo. “Hai nostalgia del tuo paese?” “Un po’, perché sono già alcuni mesi che sono qua”. “Ma mi sono abituata”. “Spero presto che tu possa tornare in Inghilterra” soggiunse Giovanni. “Tu dici presto, ma non credo, con tutto quello che sta succedendo intorno a noi”. “Il mondo ci guarda”. “Vuol dire che siamo gente importante” disse Giovanni. “Un pugno nel cuore della vecchia Austria e abbiamo mandato su tutte le furie l’Imperatore” rispose la donna, sorridendo. “Sembra tutto facile, ma non è così” ribatté Giovanni. “Tutto questo assomiglia ad uno strano concerto”. “Una sinfonia strana, in autunno, quando le foglie cadono dagli alberi”. “Il cielo è sempre pieno di nubi e le foglie e i fiori appassiscono” disse la donna. “Vincere o morire” soggiunse Giovanni. “Si è fatto tardi, devo andare al lavoro”. Così dicendo la donna si alzò. “Devo rivederti Mo”. “Voglio invitarti a cena” proseguì a dire Giovanni. “Busserò io alla tua porta”. “Verrai da me” rispose l’inglese. “Ciao Giovanni, a presto”. “Ciao Mo”. Giovanni, felice, tornò sui suoi passi e attraversò di nuovo Piazza San Marco, mentre i piccioni volavano bassi sopra di lui e a volte si posavano per terra, beccando il mangime. Mentre guardava la Basilica di San Marco, pensò tra se: “Ecco queste meraviglie, sempre qui per l’eternità, mentre i nostri pensieri, bruscamente, passano per la mente. Gli uomini soffrono, piangono e muoiono. Ma l’arte si rinnova e vive in eterno. È la nostra eredità che lasciamo su questo pianeta”. Giovanni sentì che il campanile vicino scoccava le ore 9. Pensò che il tempo incalzava e che lui non poteva soffermarsi su tante cose. In un lampione un popolano stava affiggendo un manifesto. Giovanni si soffermò a leggerlo. Diceva così: “Cittadini Veneziani, sta giungendo l’ora della grande riscossa contro il Governo Austriaco invasore! A Vienna è scoppiata una grande rivoluzione e tutta l’Ungheria si è sollevata con le armi! Finalmente si stanno avverando le nostre speranze”. Giovanni scosse la testa, poiché conosceva molto bene di quale pasta era fatto quel nemico e lui ne aveva avute le prove in varie circostanze. Poi il suo carattere era sempre permeato di uno strano pessimismo. Infatti poco dopo Windisgraetz accorreva con un esercito e la capitale austriaca tornava alla sua obbedienza. Anche l’aiuto delle potenze occidentali era svanito. Il Visconte Palmerston scriveva a Manin la seguente lettera il 16 ottobre del 1848: “Io ho avuto l’onore di ricevere la vostra lettera del 20 agosto ultimo, relativa ai rapporti di Venezia con l’impero austriaco e nella quale pregate il governo di Sua Maestà d’impiegare i suoi sforzi per impedire che Venezia ritorni sotto la dominazione dell’Austria. In risposta io devo informarvi che tra le proposizioni fatte al governo austriaco dal governo britannico per la pacificazione dell’Italia, non ve ne ha alcuna che comprenda la separazione di Venezia dalla corona imperiale e che sarebbe saggio per conseguenza dalla parte dei Veneziani, di entrare in trattative col governo austriaco”. L’Inghilterra almeno salvava la faccia, senza inventare delle scuse meschine. Ora Giovanni si trovava in una strana situazione, cioè aveva tanta voglia di vivere, di viaggiare e di studiare l’arte con molta curiosità, che si estendeva alla vita e all’amore per essa, ma si sentiva isolato in un campo trincerato, come se da un momento all’altro stesse per accadere qualcosa. In effetti aveva ragione di sentirsi così, poiché i fatti erano estremamente difficili. Questo stato di cose lo rendeva ansioso. Tutto sapeva di uno strano sapore. Ma quello non era soltanto l’animo di Giovanni, poiché tutta la gente di Venezia aspettava qualcosa. In quei giorni molti pregavano nelle chiese. Tutto questo si poteva definire come un’aspettativa corale. Quel volto di donna lo aveva rassicurato e in lui si riaccese la grande speranza del domani. Ora lui scriveva e leggeva nella sua stanzetta, e sentiva, di sopra, nella soffitta, i passi leggeri di Maureen. Quel nome straniero lo portava lontano con la fantasia e quando si allontanava dalla propria abitazione, per andare a lavoro, aveva nostalgia di lei. Un giorno di mattina Giovanni la incontrò sul pianerottolo delle scale e la invitò a cena per la sera seguente, in un locale vicino. “Ciao Mo” disse lui. “Ciao Giovanni” rispose lei. “Desidero vederti questa sera”. “Anch’io e dove andremo?” “Di questi tempi c’è poco da scegliere” proseguì lei. “Ma io conosco una locanda; ove si beve del buon vino”. “Allora, va bene”. “Questa sera alle sei busserò alla tua porta” disse lui. “No, Giovanni è meglio alle sette”. “Non sono sicura di essere tornata dal lavoro per quell’ora”. “In ospedale c’è sempre tanto da lavorare sai”. “Bene Mo, verrò da te per quell’ora”. La donna, fu puntuale e i due uscirono insieme. In quelle giornate l’aria era ancora tiepida e si stava bene di fuori. Mentre camminavano Giovanni prese la mano di Mo. Ella rimase un po’impacciata, ma poi annusò l’aria e i suoi occhi si riempirono di gioia. “È bella quest’aria e questo cielo, come è bello stare con te” disse lei. “Anche per me” rispose Giovanni. I due affrettarono il passo e giunsero alla locanda sull’imbrunire. Un uomo panciuto e non molto giovane, andò loro incontro, sorridendo e salutando Giovanni. “Accomodatevi qui, in questo posto d’angolo” disse garbatamente il locandiere, facendo posto a loro, in un tavolinetto, nel piccolo cortile dall’ampio pergolato di pizzutello dalle foglie verdi. “Qui, starete molto bene”. “C’è fresco e starete indisturbati” proseguì a dire, accendendo un lume a petrolio, posto in un angolo sopra una colonnina. In quel momento Giovanni sentì un leggero venticello, mentre l’aria si colorava di blu e cadeva la sera. “Forse brezza di mare” pensò. “Cosa devo servirvi?” disse il locandiere. “Posso scegliere io?” Si affrettò a dire Giovanni alla sua compagna. “Certamente, come vuoi” rispose lei. “Tonio, so che non c’è molto da scegliere, siamo in guerra” proseguì lui, rivolgendosi all’oste. “Sì Giovanni, ma noi facciamo sempre il possibile da buoni Veneziani, per la nostra clientela”. “Che cosa c’è?” “Pesce, anguille, patate e vino bianco locale”. “Bene Tonio porta tutto per due”. “Forse verranno tempi migliori ma oggi sono così” rispose l’uomo grasso, allontanandosi. Ora erano rimasti soli, poiché il locale era deserto e si sentiva lontano il rumore dei piatti nella cucina. Giovanni strinse la mano a Mo e si guardarono negli occhi. I due allora sentirono dentro di loro una grande felicità e presagirono che la notte li avrebbe colti assieme. Infatti mangiarono, bevvero il buon vino bianco locale, tanto da sentirsi ebbri e presto l’uomo fu nell’appartamento della donna. Mo si spogliò e raggiunse Giovanni nel letto. Durante la notte fecero più volte l’amore e quest’ultimo fu felice di sentire che la sua compagna godeva. Era una bella notte ed il mare si era calmato. La luna pallida ormai alta nel cielo rischiarava la stanza buia. Un leggero venticello, entrando dalla finestra, muoveva le bianche tendine. Più tardi udirono il cannone tuonare lontano e alcuni lampi illuminarono le finestre. La donna si svegliò insonnolita. “Un grosso temporale sulla Laguna?” Chiese sussurrando Mo. “No, forse sono i nostri” rispose Giovanni. “O qualcuno spara su qualche povero diavolo”. Poi i tuoni e i lampi continuarono, come una mitraglia, da far paura. “Che cos’è?” Continuò a domandare l’inglese. “Accidenti, le cose si mettono male e io devo andare subito al comando” rispose Giovanni, prendendo le scarpe sul pavimento fatto di mattoni cotti. Circa 3000 austriaci occupavano Mestre e i Veneziani avevano tentato una sortita a Cavallino, con esito favorevole. Il giorno seguente a Venezia, fu una grande festa e i vincitori furono passati in rivista dal generale Pepe. Mo e Giovanni  felici, parteciparono a queste manifestazioni tra la folla. A Piazza San Marco suonò una fanfara militare. Alcune maschere improvvisarono delle farse. Un plotone di soldati sparò alcune salve in aria. Tutto aveva l’aria di festa e di vittoria. Ma Giovanni aveva l’animo permeato di pessimismo, forse era il suo carattere. Teneva stretta la mano di Mo, tra la folla, mentre la fanfara suonava e fisso guardava quella maschera scura, sul viso di Arlecchino che mimava. Era un giorno di festa quello e la fanfara suonava, la bandiera tricolore con lo stemma sabaudo, tenuta dai soldati, passava tra la folla, sventolando, mentre il sole nel cielo illuminava i tetti delle casette di Venezia, tanto da far apparire il tutto come un presepe. Ma era uno strano presepe, contornato di fuoco, poiché il nemico era troppo vicino. Per questo il suo animo non poteva essere felice, come del resto quello della gente, a lui, intorno. Intanto Giovanni continuava a stringere forte la mano della sua compagna, che sentiva tanto vicina, da sembrargli di sentire i palpiti del cuore di quest’ultima battere assieme al suo.

Per questo stato di cose, per questo strano contrasto, tra la morte sempre in agguato vicino Venezia e la vita dei cittadini, il ministro Cavedalis, dopo quella festa, chiamò il maggiore Radaelli presso di sé e gli ordinò di abbozzare un piano d’attacco contro gli uomini austriaci del generale Mittis che occupavano Mestre. Il maggiore era l’unica persona che conosceva meglio di ogni altro il terreno della battaglia, poiché aveva in mano la direzione delle ricognizioni militari e studiato con meticolosità le opere costruite dagli austriaci. Quest’ultimo, dopo 24 ore, presentò il progetto di attacco contro le posizioni nemiche. Il sole era già tramontato e il salone del Gabinetto del Ministro era buio. Gli inservienti avevano acceso, da poco, le bianche candele, poste nei grossi candelabri d’argento. L’aria era mite e le finestre erano socchiuse. Al centro vi era un grosso tavolo, dalla tovaglia verde e sopra stesa la carta geografica di Venezia e dintorni. La riunione ebbe inizio alle ore sette del 25 ottobre e si protrasse per tutta la serata, sino a notte fonda. Poi si dovettero dare le disposizioni ai vari settori di operazione. A questa riunione vi parteciparono oltre al Ministro, il generale Pepe, il Capo dello Stato Maggiore Radaelli e altri ufficiali. Giovanni vi partecipò come osservatore. Questo compito fu scelto da lui, poiché pensava che quella era una battaglia importante, degna di essere ricordata nella storia. Contemporaneamente pensava al suo futuro. Stava sempre tra rischi di ogni sorta e amava sopra ogni cosa la vita e l’arte che erano meravigliose. A volte pensava come sarebbe stato il suo avvenire. Non si sentiva sicuro, poiché la sua vita era in bilico. Per acquistare serenità ed equilibrio, avrebbe dovuto avere qualcosa su cui appoggiarsi, forse un affetto, ma la vita a quei tempi era precaria e a lui sembrava come una sequenza d’immagini e di cose. A che cosa andava incontro l’Europa e l’umanità? Come sempre gli uomini pensavano a rinnovarsi e il loro pensiero come adesso, si trasformava in un travaglio quotidiano. Molti pensavano di trovare uno sbocco a quei tumulti, attraverso la lotta di pensiero, altri per abitudine rimanevano ancorati alle vecchie idee. I pochi che di solito avevano ragione e vedevano lontano, non venivano ascoltati, poiché le parole sagge spesso si perdono nel vento e l’umanità si avviava a quel sistema agonistico che porta inevitabilmente al dissanguamento. A Giovanni sembrava di stare aggrappato ad un cavallo che correva in una notte buia di eventi e si avviava verso un orizzonte dorato. Quello era un pomeriggio movimentato. Il salone presto si riempì di voci concitate. Tutto faceva supporre ad uno strano evento. Quello della battaglia imminente. L’ambiente fu invaso dal fumo dei sigari. Per questo gli inservienti aprirono anche qualche finestra. Gli uomini dello Stato Maggiore discutevano, a testa china, sulla grande carta geografica. I nostri erano preparati ad ogni sorta di giochi. Conoscevano il terreno in cui operare, conoscevano il nemico caparbio da affrontare, le perdite e l’esperienza delle battaglie. Purtroppo quello non era un semplice gioco, ma un fatto di vita o di morte. I capi sapevano già il prezzo delle vite umane che sarebbe costato, ma si stava costruendo l’Italia e le battaglie non erano fatte per scherzo. In quegli istanti tra il vociare continuo degli ufficiali e il fumo, mentre dalle finestre semiaperte entrava il vento misto a l’aria fredda dei canali, a Giovanni parve di sentire, lontano, il suono sinistro di una tromba. Un brivido percosse il suo corpo e subito dopo posò lo sguardo sulla carta geografica, ove erano ingranditi i particolari dei dintorni di Venezia. Stava parlando, dando evidenti spiegazioni, il maggiore Radaelli, mentre gli altri ascoltavano attentamente. L’ufficiale diceva: “Gli austriaci hanno barricato tutti gli argini di Mestre e le case vicine. In questo punto sono armati con due cannoni da dodici. Anche la stazione è ben trincerata e quattro pezzi di artiglieria infilano la strada ferrata che proviene da Venezia attraversando la fortezza di Marghera. Fusina, l’estrema destra degli austriaci, è anche ben trincerata. Qui, gl’imperiali sono circa trecento e rintanati in alcune case, poste in su la riva con 4 grossi cannoni da 24, difendono l’approdo. Tra Fusina e la stazione per un fronte di circa 4 chilometri, vi sono trincerati ben 3000 austriaci, che hanno per quartier generale un luogo denominato la Rana. Il mio progetto signori è quello di attaccare Fusina e la Rana con il reggimento Cacciatori del Sile. Gli uomini verranno fatti sbarcare per mezzo di grosse barche e saranno protetti dal fuoco incrociato di una divisione leggera di cannoniere. Questa, naturalmente è una manovra diversiva, per distogliere il nemico dall’azione principale. Quest’ultima sarà condotta da due colonne, provenienti da Marghera, che attaccheranno, con impeto, Mestre e la stazione. Le batterie del Forte Rizzardi e Marghera copriranno l’assalto. Naturalmente dovremo avvicinare sul fronte, subito, delle forze fresche di riserva, nel caso che il nemico opponga una forte resistenza”. “Bene il piano mi piace” rispose il generale Ulloa. “Solo voglio aggiungere una sezione di artiglieria, per proteggere l’attacco principale”. Il tutto fu approvato e la sera del 26 ottobre le truppe, silenziosamente, per il ponte della ferrovia si recarono a Marghera, mentre i Cacciatori del Sile salirono su delle barche, che li attendevano sulla riva delle zattere. Il maggiore Radaelli organizzò i mezzi per l’attacco a Fusina. Due battaglioni l’uno chiamato Italia Libera e l’altro Cacciatori del Reno, comandati da Zambeccari, furono destinati per l’attacco di Mestre, mentre il colonnello Morandi, con un battaglione lombardo e una compagnia di romagnoli, attaccava la stazione. Il reggimento Bignami e una compagnia di gendarmi, rimaneva di riserva nella fortezza di Marghera. Ed ecco sorgere l’alba del 27 ottobre. Una densa nebbia copriva tutta la Laguna, indorata dall’alto dal sole che da poco si era levato. Il generale Pepe dirigeva le operazioni dal Forte di Marghera ed era impaziente. Faceva su e giù nel suo quartier generale, poiché temeva che la nebbia si sarebbe diradata e intanto non arrivava, ancora, la sezione di artiglieria. Quella circostanza, della nebbia, era favorevole per le truppe che attaccavano Mestre, ma sfavorevole per quelle che assalivano dalla parte del mare Fusina, ove il cannone non si faceva sentire ancora. Giovanni, con il cuore in gola, era tra le truppe di terra che avrebbero attaccato Mestre e la sua stazione. Temeva per la sua vita e ogni tanto pensava a Mo e ai suoi familiari lasciati a Legnago. Aveva in tasca un taccuino per prendere gli appunti e ansimava, quel giorno, tra le mostrine rosse e le divise dei soldati italiani, nel Forte di Marghera, prima dell’attacco. Erano ormai le sette e mezza e senza più indugi, Pepe dette gli ordini di assalire il nemico. Silenziosamente e in pochi minuti, i nostri avanzando dalla parte del ponte, furono sugli avamposti austriaci. Urla e spari da ambo le parti. Intanto gli italiani attaccavano alla baionetta gli imperiali, che si ritiravano, dando l’allarme alle truppe retrostanti. Squilli di trombe soffocati dal fuoco di copertura delle batterie dei Forti di Marghera e Rizzardi, che allungavano il tiro.

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