Dedico questo romanzo a mio padre Mario e a mia madre Annamaria e a tutti gli insegnamenti morali che mi hanno trasmesso. È importante tramandare i valori dell’arte, della terra e dell’essere umano. Questa storia è stata scritta per fare in modo che  l’umanità non dimentichi i suoi figli migliori. Soltanto quando gli uomini non faranno più guerre si arriverà a una vera umanità e si potrà capire l’arte.

Piermarco Parracciani

 

Affermare che dopo la vita c’è la morte eterna è falso. Poiché colui che su questa terra lascia imprese memorabili, degne di essere ricordate ai posteri, assieme ad esse vive in eterno. Tali imprese devono essere fatti che costruiscono il pensiero umano, al contrario della guerra. Ogni azione che svilisce l’uomo lo degrada. L’arte e la cultura invece lo rendono invulnerabile. Creare per non morire. Per questo, nel pomeriggio del primo novembre del 1807 gli zoccoli di due cavalli scuri con pennacchi calpestavano il selciato, trainando un carro da morto. Un piccolo corteo funebre, partiva dall’ospedale romano di di S. Antonio vicino alla Stazione e si dirigeva verso il Campo Santo del Verano. Poche persone, per lo più dall’aspetto modesto, seguivano quel feretro, diretto all’ultima dimora. L’aria era triste e il cielo nuvoloso. Tirava uno strano scirocco, che scompigliava i capelli. Le foglie degli alberi, ormai gialle e secche, cadevano sulla via e tutto contribuiva a quella strana sinfonia di un autunno ormai maturo, che come volgendo al termine, presagiva il triste e prossimo inverno. In quella bara vi era Giovan Battista Cavalcaselle. Appunto lì dentro vi erano soltanto le ossa, l’involucro, ma il suo spirito vive tra di noi. Quando rievochiamo con dimestichezza i grandi della Storia dell’Arte come Giotto, Raffaello, ed altri ancora lo dobbiamo a lui. Giusta quindi la definizione di Nuovo Vasari della Storia dell’Arte. Quel giorno la Salma del Cavalcaselle era ferma e dentro la bara di legno, con le palpebre socchiuse tanto da sembrare che dormisse, le dediche sulle ghirlande facevano capire i suoi nessi con l’arte. Lo sguardo di quella poca gente, era fisso verso colui che si dipartiva. Erano presenti l’affettuosa compagna che era svenuta varie volte, un impiegato del ruolo direttivo delle Belle Arti presso il Ministero della Pubblica Istruzione e un insegnante di Storia dell’Arte. Quel piccolo convoglio funebre fu presto inghiottito dalla folla delle persone che transitavano in città e dal vorace ed immenso Camposanto del Verano. Un uomo era morto, e ora il suo corpo gelido e senza vita, giaceva là tra tante morti. Sembrava una goccia d’acqua in un oceano immenso. Una vita laboriosa si era spenta , ma la storia che aveva lasciato, rimaneva tra di noi. La sua compagna che gli era stata devota, avrebbe voluto il funerale in gran Pompa, perché sapeva che era quello di un Grande, ma le persone e le circostanze, non erano state generose. Allora in quel giorno triste e grigio, mentre seguiva il feretro, pensava e le pareva di sentire, in cielo, tra il volo di mille uccelli, suonare le campane e non in segno di lutto, ma come vittoria sulla morte. Qualche giorno prima il Cavalcaselle era stato come di consueto a Padova e a San Gimignano, ad osservare, studiare e prendere appunti per suggerimenti di eventuali restauri, la Pittura di Giotto, Mantegna e altri ancora. Per lui ammirare un’opera d’arte, significava dialogare con l’autore e preservare di questi il nome nella storia. Aveva lasciata Firenze con la carrozza ferroviaria, nel tardo pomeriggio del 30 ottobre. Il convoglio quando in serata era quasi giunto alle porte di Roma, Cavalcaselle ebbe un malore e chiamò vicino a se la sua compagna. “Cara non mi sento bene” sussurrò. Con l’aiuto di alcuni amici, fu sdraiato sul sedile dello scompartimento. “Qui dentro fa un caldo strano, c’è afa e non riesco a respirare” diceva. Qualcuno aprì il finestrino per far entrare l’aria. Egli si appoggiò con il capo e il busto alla sua compagna. Cominciò a respirare affannosamente. I suoi occhi si chiusero e perse la conoscenza tra la trepidazione dei presenti. “Caro rispondi!” Quasi gridò la donna, con le lacrime agli occhi, accarezzandogli le guance. “Ti prego dimmi qualcosa!” “Ti scongiuro non lasciarmi così!” Continuò a dire supplicando. Ella pregò Dio e tutti i Santi che il suo compagno aveva venerato nelle opere d’arte. Ma ormai era troppo tardi. In quello stato giunse a Roma e dalla stazione fu portato nel vicino ospedale di Sant’Antonio, ove si spense dopo varie ore di agonia. Terminava così la vita di un uomo che aveva dedicato veramente tutto se stesso agli interessi della sua Patria. Il Cavalcaselle era nato a Legnago una cittadina in provincia di Verona il 22 gennaio 1819. Giovanissimo fu avviato a Venezia alla Scuola di Disegno e Pittura. Ma egli aveva un animo irrequieto e lo spirito da indagatore. L’arte in quel momento non passava un periodo roseo e Giovanni nella città lagunare si sentì subito attratto dalle opere d’arte della quadreria dell’Accademia e da quelle delle chiese. E fu così che i suoi passi echeggiarono in quei luoghi. Ecco il miracolo! L’incontro con il grande dipinto: “La processione a San Marco” del 1496 di Gentile Bellini della Scuola Veneziana di San Giovanni Evangelista.

“La Processione a San Marco” di Gentile Bellini

Quest’opera fu subito consona al suo carattere. L’apparizione della fantasmagoria dei colori rosso porpora dei costumi, il tormento dell’artista di cogliere nei più minimi particolari questo grande evento, portarono il Cavalcaselle a immedesimarsi nell’ispirazione della catarsi del dipinto di Bellini. Infatti i suoi occhi si spalancarono e le sue pupille brillarono di gioia. La fantasia andò in estasi. Ed ecco nella sua mente quel giorno. I personaggi si mossero in una piazza ricca di fasto. Udì il coro di mille voci cantare i salmi e gli parve di sentire nelle narici l’odore dell’incenso e del fumo delle candele, poste sui candelabri processionali. Vide senatori in gran pompa, i confratelli con gli stendardi, i baldacchini votivi, i reliquiari, i gruppi degli spettatori, il Palazzo Ducale con le caratteristiche architetture, i merli, le trame e i mosaici dorati, le colonne, le logge, con le dame affacciate che discorrevano, gli angeli alati, i pinnacoli, le torricelle, le bandiere rosse al vento e più su il bel cielo di Venezia. Ormai Cavalcaselle conosceva la strada da percorrere. In quel quadro ove in una mirabile sintesi il Bellini univa nella piazza il fasto imperiale dei dogi e la realtà del popolo, Giovanni aveva colto l’essenza pura dell’arte che sapeva ancora di aulica e perfetta grandezza. Quei disegni e i colori lo affascinavano e allora quando trovava una sedia o uno sgabello si sedeva e cominciava a disegnare e a prendere appunti sui restauri da farsi e su tutto ciò che concerneva i metodi di comparazione e la critica d’arte. Per esempio descriveva le macchie, i guasti, la scoloritura e i vari cretti d’epoca. Questi disegni sono stati conservati assieme ai suoi appunti ed oggi sono dei documenti validi per lo stato di pittura di allora. Fu così che scoperse il Bellini, il Tiziano, il Carpaccio e il grande Antonello Da Messina. Giovanni era sempre tormentato dentro di se dalla mediocrità e quindi non cercava l’affermazione nella Scuola di Pittura, bensì altrove. Poiché tanto più grande è un critico, quanto più riesce ad entrare nella personalità dell’artista esaminato. Quindi Cavalcaselle sentì il bisogno di riordinare le scuole. Infatti in Italia e all’estero c’era molto disordine. Ma egli voleva il consenso del proprio padre, che sovvenzionava i suoi studi nella città lacustre. Infatti scriveva in una lettera del 1844: “Carissimo padre è mio dovere informarvi che ho cambiato indirizzo di studio. Vi prego credetemi non lascerò mai la strada dell’arte. Vi spiegherò meglio. Seguiterò sempre a disegnare e a scrivere cose riguardanti opere eccelse, ed a ordinare quello che oggi è solo confusione; di modo poi che quelli che verranno dopo possano leggere con più chiarezza l’eredità lasciata dai nostri artisti del passato. Il presente offre assai poco. Credetemi padre, sarei un mediocre pittore. Invece di fronte alla lettura di un buon dipinto, mi sento a mio agio perché rivivo gli attimi e i palpiti di quel tal artista. È meravigliosa la strada che sto percorrendo. So che tutti a casa, state facendo un grande sacrificio per me, ma sono sicuro che non ve ne pentirete. Ieri ho ricevuto la busta con il denaro. Vi ringrazio con molto affetto. Tra qualche settimana partirò. Visiterò prima le città venete, poi la Lombardia e la Toscana. Un abbraccio dal vostro Giovanni Battista.” Questa lettera fu scritta dal Cavalcaselle a lume di candela e quando la terminò la spense con un soffio. Allora dalla finestra (una bifora) aperta, filtrò potente il raggio della luna piena. Giovanni si alzò dalla sedia e andò a guardare i tetti e le cupole di Venezia. Tutto era illuminato da uno splendido manto color argento. Sembrava giorno. A quell’ora, c’era un gran silenzio. Per un attimo, sentì la pace dell’anima. Intanto l’orologio a pendolo in camera da pranzo scoccò la mezzanotte in punto. “Il denaro non è sufficiente, ma saprò farlo bastare”. Pensò. Era il mese di maggio e faceva caldo sebbene dai canali arrivava una leggera frescura che colpiva l’epidermide. Giovanni sentì l’umidità e l’odore dell’acqua putrida. Chiuse la finestra e andò a dormire poiché era stanco.

Alcuni giorni dopo il Cavalcaselle con un fagotto infilato ad un bastone  che teneva in spalla, camminava per una strada di campagna. Era diretto a Firenze ed aveva già visitato alcune città dell’Italia settentrionale. Il cielo era terso e l’aria cristallina. Giovanni sentiva la gioia nel cuore. Finalmente si stava avverando il suo sogno e cioè la stesura da parte sua di un libro ove avrebbe raccolto i pittori italiani, classificandoli per periodo, per scuola e per regione. Cioè la Storia della Pittura Italiana e questo poteva avvenire soltanto visitando le chiese e le quadrerie d’Italia e osservando attentamente le opere e se occorreva, correggendo gli scrittori più eccelsi come il Vasari. Anche se aveva avuto il consenso del padre, i soldi erano pochi e allora viaggiava a piedi. In quel punto che stava percorrendo ogni tanto passavano diligenze, carri e quasi per dispetto i viaggiatori lo salutavano, ed egli rispondeva a quel saluto. Dopo lunghe ore di marcia i suoi piedi erano doloranti e sentiva la nostalgia di viaggiare comodo in quelle carrozze e di vedere dai finestrini il paesaggio, mentre il vento gli accarezzava le gote. Doveva far i conti con il suo misero bilancio e doveva calcolare i denari occorrenti per pagare da mangiare e dormire in qualche locanda, poiché la notte quelle contrade a quei tempi erano infestate dai briganti. Ma ecco ad un crocevia, in piena Maremma un grosso fontanile con un bocchettone che zampillava acqua freschissima per abbeverare gli animali da pascolo. Giovanni si fermò, bevve quell’acqua e dal suo fagotto tirò fuori una fetta di pane, del formaggio e andò a mangiare e a riposare ad un vicino pagliaio sotto una grande quercia. Era estate: faceva caldo e in quel punto l’aria era tiepida. Giovanni vide gli alberi in fiore e sentì il profumo dei campi. Quel luogo era meraviglioso, allora dopo aver finito di mangiare, cominciò a pensare e a meditare sulle città e le opere d’arte che doveva visitare. Il giorno dopo fu a Firenze e la Valle dell’Arno con tutti i suoi splendori era davanti a lui. Giovanni si diresse subito verso la Cattedrale, cioè Santa Maria del Fiore, che è la terza nel mondo per grandezza.

Fu progettata nel 1296 da Arnolfo di Cambio in pieno clima Gotico. Giotto iniziò i lavori del bellissimo campanile, mentre il Talenti amplificò il progetto originale aumentando così le dimensioni dell’opera. Nel 1434 l’architetto Filippo Brunelleschi portò a termine la costruzione della Cupola senza un’armatura fissa. Due anni più tardi fu consacrata dal Papa Eugenio IV e nel 1461 venne aggiunta la lanterna. Lo stupendo  complesso architettonico rifinito con la decorazione di marmi policromi e portali bronzei è certamente l’esempio più significativo del Gotico Toscano. Il Cavalcaselle prese dalla sua bisaccia il blocco di carta con la matita e cominciò a disegnare. Aveva la barba lunga e faceva caldo.  Il sole picchiava sul suo capo e allora si fece un cappello di carta con un vecchio giornale e continuò a disegnare. Più tardi si bagnò il collo e i polsi in una vicina fontana. Bevve e poi entrò nella Cattedrale ove faceva fresco e si fece il segno della croce. Ivi osservò, l’architettura sobria dell’interno, il corpo di costruzione a tre navate, i pilastri composti e gli archi acuti. Esaminò attentamente nell’interno la “Pietà” di Michelangelo Buonarroti.

“Pietà Bandini” di Michelangelo 1447-1555

Opera bellissima ove il gruppo dei personaggi con la figura del Cristo morente culmina nello schema piramidale, mentre le masse si contrappongono. Il non-finito rende altamente suggestiva questa immagine sacra. Quando uscì da quella frescura e riosservò l’imponente costruzione, il colore dei marmi bianchi, verdi e rosati usati per il rivestimento esterno battuti dai raggi solari quasi lo accecarono. Mano a mano poi che si allontanava per i vicoli della città gli parve che il Duomo con le sue tribune, le sue grandi finestre e il campanile con le enormi trifore e bifore, la sontuosa e imponente cupola, lo seguissero nel suo cammino. Quando giunse al Battistero di Firenze tra il vociare dei fiorentini, era già l’ora del Vespro e mentre il venticello spirava, le campane presero a suonare.

Il Battistero risale all’XI secolo. Era l’antica Cattedrale di Firenze. In stile Romanico e a pianta ottagonale centralizzata e rivestita con marmi policromi. Ha tre porte in bronzo dorato poste secondo i punti cardinali. La più famosa è quella orientale che con le sue formelle è il capolavoro di Lorenzo Ghiberti.

Due statue di Andrea Sansovino  poste sulla trabeazione, rappresentano Gesù che battezza il Battista. Entrò quasi subito e il suo sguardo si posò sul bellissimo pavimento a mosaico e poi dalle colonne corinzie sui lati, su verso i matronei e la zona superiore scandita in partizioni volumetriche a marmi dicromi e poi sulla famosissima Maddalena e il San Giovanni Battista di Donatello. Dopo una breve pausa, nel frattempo alcuni chierici accesero delle grandi candele poste su alcuni candelieri vicino alla tomba dell’antipapa Giovanni XXIII e altre nelle vicinanze della fonte battesimale. Volse lo sguardo verso la Cupola rivestita interamente da mosaici bizantini del XIV secolo.

A questo punto mentre la viva luce delle candele veniva mossa dal vento che fischiando entrava dai portali, proiettata sulle figure colorate, dava parvenza che stavano in movimento tra colate d’oro zecchino. La grande figura centrale del Cristo Giudicante, con le sue grandi mani e piedi gli sembrò andargli incontro, attorniata dal maestoso girotondo delle Generazioni degli Angeli. Allora gli parve di sentire nei suoi orecchi, una strana e melodiosa sinfonia, quasi come quella di un Organo Celeste.

Quando uscì passò di fronte alla Loggia del Bigallo, verso via Calzaiuoli ed era assai tardi. Alcuni confratelli della Compagnia della Misericordia conducevano, portandoli in fila alcuni bambini abbandonati, vestiti con mantellina scura. Si faceva buio e qualcuno accese i lampioni. Giovanni pensò bene di trovare un rifugio per dormire nella notte poiché l’indomani doveva visitare molti luoghi. Lo trovò dopo qualche minuto in una locanda, detta del “Gallo d’oro” presso Ponte Vecchio. Era una cameretta dalle pareti candite, il pavimento lustrato come uno specchio e il letto alto con la biancheria pulita aveva una grossa spalliera in ferro scuro, con due pomi laterali. Da una piccola finestra, ove sul davanzale vi era un vasetto con germogliato un geranio, si poteva vedere l’Arno in secca. Il soffitto era fatto di travi di legno imbiancate. Giovanni si lavò le mani e la faccia in un catino e si asciugò con un asciugamano. Poi su di un piccolo tavolo di noce scrisse in un taccuino l’itinerario del giorno seguente. Quando ebbe finito era tardi e la luce della luna filtrava dalla finestra. Allora scese in basso per desinare. Si accomodò in un angolo vicino ad un grande camino e vide che i piccoli tavoli avevano delle tovaglie e tovaglioli a scacchi rossi ed erano ben puliti. Intorno c’era un’atmosfera di cortesia, di attenzione e di educazione per l’ospite. Giovanni notò che nel locale vi era qualche altro avventore. Sul lato opposto, vicino alle finestre c’era un panciuto barrocciaio con il barroccio fuori la locanda accanto alla porta d’ingresso. Fumava un grosso sigaro toscano e il suo tavolo era in disordine. Ogni tanto tirava fuori il proprio orologio dal taschino e guardava l’ora. L’uomo aveva già mangiato. Vicino alla cucina vi era una coppia anziana. Stavano per pagare il conto ad una bella e prosperosa ragazza bionda ed attempata che era vestita di scuro ed aveva un grembiule chiaro. I due dopo aver pagato si alzarono e se ne andarono richiudendo la porta a vetri. A questo punto anche il barrocciaio si alzò lasciando cadere dei denari sul piano del tavolo che fecero rumore. “Ciao Rosa” disse togliendosi il sigaro dalla bocca e prendendo una grossa frusta scura in un angolo. “Vado via è tardi” seguitò a dire avvicinandosi all’uscio. “Di già signor Nicola!” Esclamò ella sparecchiando il tavolo degli avventori che erano appena usciti. “Prendete almeno il caffè e poi andate via”. “No è tardi Rosa e domani devo andare a Poggibonsi per la fiera”. “Fermatevi ancora un po’, avete mangiato così in fretta, diamine!” (Ribbattè ella). “Siete di compagnia, su via, ancora un po’ e poi andate”. “No non posso fermarmi come le altre sere rispose l’uomo, prendendo il cappello unto dall’attaccapanni e mettendolo sul capo. “Ciao Rosa a domani sera”. Così dicendo il barrocciaio aprì la porta e uscì fuori richiudendola alle sue spalle. Rosa guardava Giovanni. Nella saletta era caduto il silenzio e ora si udiva il rumore delle pentole, dei piatti e dei bicchieri che mettevano a posto gli inservienti. “Ogni sera dopo aver mangiato, giocavamo a carte” disse ella scrollando le spalle. “Studente?” chiese la donna rivolta a Giovanni. “Sì” rispose. “Di che cosa?” “Studio Arte” “È bello!” “Devi mangiare?” “Sì” “Hai fame?” “Sì” “Che cosa posso servirti?” “Una zuppa di verdure” “Solo?” “Sì” “Vieni da lontano eh?” “Abbastanza” “Scommetto che sono giorni che sei in viaggio e hai i piedi doloranti” “Insomma” “Allora ti faccio preparare una bella zuppa di pasta e fagioli e poi ti porto subito del vino rosso e del pane con il formaggio” “Va bene”. La donna dette una grossa manata sulla spalla di Giovanni e poi scomparve con il suo grande sedere dietro ai fornelli della cucina canticchiando un motivetto popolare. Quando tornò portò tutto a tavola. Mentre Giovanni mangiava e beveva ella si mise a sedere a cavalcioni su di una sedia accendendosi un grosso sigaro toscano. Giovanni notò il suo grande seno quasi scoperto e palpitante.

“Dove sei diretto dopo Firenze?” Gli chiese Rosa a bruciapelo, tirando fuori dalla bocca il fumo.

Giovanni: “A Siena, ad Assisi e a Roma”

Giovanni: “Studio Arte”

Rosa: “E sei per la Repubblica?”

Giovanni: “Può darsi”

Rosa: “Non fare quella faccia”

Giovanni: “Mica sono una spia”

Rosa: “Caro mio, a Roma si fomenta e hanno ragione per me”

Rosa:  “Via il Papa! Evviva la Repubblica Romana!”

Rosa: “Siamo ancora troppo lontani da questo sogno”

Giovanni: “Occorrono uomini per difenderla!”

Giovanni: “Non possiamo abbandonarla”

Giovanni: “Il Papa se si vede perso chiamerà i rinforzi”

Giovanni: “In Svizzera stanno arruolando dei volontari”

Rosa: “Cominci a piacermi!”

Giovanni: “Io mi occupo solo di Arte e Firenze è piena di meraviglie”

Rosa: “Non fare il modesto”

Rosa: “Appena sei entrato, mi sei subito piaciuto”

Rosa: “Mi sa tanto che dopo ci scappa anche il dolce e di quello buono!”

Di fuori intanto aveva preso a piovere. Una pioggerella fitta e greve di quelle estive batteva sui vetri delle finestre portata dal vento.

Giovanni: “Piove!”

Rosa: “Di questi tempi?”(Esclamò stupefatta)

Rosa: “Vado subito a ritirare i panni!”

Giovanni: “Se continua così l’Arno si ingrossa!”

A Giovanni piaceva molto quella donna perché era schietta e sincera. L’uomo aveva fame e continuò a mangiare i fagioli e a bere il buon vino rosso. Tra l’ebbrezza dell’alcool e l’ottimo sapore del cibo sul palato era felice e sentiva l’atmosfera familiare di quel posto. La donna tornò con un mucchio di lenzuola e le depose su di un tavolo vicino.

Rosa: “Tutta roba da stirare!” (Esclamò)

Rosa: “Per fortuna l’ho ritirata in tempo altrimenti si sarebbe bagnata”

Era tardi e gli inservienti uscirono verso la cucina e andarono verso la porta per tornare alle loro case poiché avevano terminato il loro lavoro.

Inservienti: “Buona notte signora Rosa!” (Dissero quasi in coro, spegnendo le candele)

Rosa: “Buona notte ragazzi!”

Rosa: “Stanco eh?” (Disse poi rivolgendosi a Giovanni)

Giovanni: “Tanto”

Rosa: “Da dove vieni?”

Giovanni: “Dal Veneto”

Rosa: “Certo ne hai fatta di strada”

Rosa: “Bel bambolotto è ora di andare a nanna!”

Rosa: “Vieni ti faccio strada”

La donna così dicendo andò verso le scale di legno poste dietro una porta. Mentre Giovanni seguiva Rosa, sentì il profumo dell’acqua di colonia e vide l’ombra della donna sulla parete chiara. Intanto aveva cominciato a lampeggiare e a tuonare. La pioggia era aumentata e si sentiva il suo tambureggiare sul tetto. Arrivarono sul pianerottolo buio e la donna a aprì la porta della camera che scricchiolò. Entrò seguita da Giovanni e posò la candela sul tavolo. Sollevò la coperta del letto e mise i due cuscini uno sopra l’altro. L’uomo era stanco e si gettò sul giaciglio per dormire. La Rosa in un attimo chiuse la porta e spense la candela decisa, poi si spogliò nuda gettando i vestiti a terra. I due fecero l’amore.

Nel cuore del mondo delle meraviglie, come sempre dopo il temporale la quiete. Quindi il giorno dopo a Firenze era una giornata splendida. Tutto aveva ripreso come il giorno prima. I calzolai e i fabbri seguitavano il loro lavoro di battitori e il sole nel bel cielo azzurro, illuminava ogni cosa asciugando dall’umidità le strade allagate. C’era per quei luoghi la storia antica. Di mattina presto Giovanni si diresse in fretta verso il Museo dell’Opera del Duomo. Era in gran forma e nessuna cosa al mondo lo avrebbe fermato, perché l’Arte è come una droga e quando ti prende con i suoi larghi tentacoli non molla più. Quindi per lui era una cosa meravigliosa abbandonarsi tra le braccia di quella Divinità e farsi trascinare dentro le sue viscere. Dopo quel temporale che aveva lavato Firenze, l’aria era più pulita e le cose di conseguenza si potevano vedere nella loro giusta fattezza. Giovanni quel giorno era capitato a proposito a Firenze e si sentiva guidato e ispirato nel miracolo naturale di quella grande catarsi storica, come una nave cullata dalle onde marine, che rifletteva i raggi d’oro del sole. Mentre camminava e respirava quell’aria del primo mattino e aveva sotto le sue narici l’odore degli alberi in fiore, sì sentì dentro la personalità e il modo di vedere di quei Grandi Artisti che avevano calpestato quel suolo e che ora erano cenere e polvere al vento. Egli amava quei luoghi e quelle persone e sentiva che da lì come in ogni altro posto in Italia, sarebbe nata la sua Patria. Quando Giovanni entrò nella Grande Sala delle Cantorie di marmo che furono tolte dal Duomo nel 1686, rimase estasiato. Il suo sguardo si rivolse direttamente al particolare di un pannello della Cantoria di Luca Della Robbia, ove vi sono tre giovani che cantano tenendo tesa una lunga pergamena mentre altri due quasi abbozzati, ascoltano estasiati la dolce e soave melodia religiosa.

Quest’Opera sublime e unica al mondo fu realizzata dal grande Artista nel 1439. A questo punto a Giovanni gli parve che le figure dei giovani in marmo traslucido prendessero vita muovendosi. Un brivido arcano percosse il suo corpo e dalle bocche semiaperte di quei giovani personaggi vestiti con tuniche bianche, candide, allacciate alla vita, uscì un canto melodioso, che pian piano avvolse tutta la sua persona. In quel momento egli era nella famosa Firenze del 400, ove dominava incontrastato il grande personaggio assai famoso di Lorenzo il Magnifico e intorno a lui i grandi della storia che dettero poi vita alla sublimazione dell’Arte. Allora quelle piazze e quei luoghi si animarono di quegli artisti e Giovanni sentì lo scalpellìo sui marmi, il loro vociare concitato in dialetto toscano, con quella benedetta “acca aspirata”, che ti calma e allo stesso tempo sembra accarezzarti l’anima. Ed ecco lì davanti ai suoi occhi, la famosa Cantoria di Donatello, con il suo dinamismo plastico del girotondo dei putti (sotto le colonnine) eseguita da quest’ultimo dopo il soggiorno romano del 1491.

Quando uscì si diresse ancora verso Via Calzaiuoli e proseguendo per quest’ultima si trovò di fronte alla stupenda chiesa di Orsanmichele. In origine era una loggia costruita da Francesco Talenti, Neri di Fioravante e Benci di Cione e adibita al Mercato del Grano. Simone Talenti alcuni anni dopo chiuse le arcate con raffinate trifore in stile gotico-fiorito e gli stessi architetti costruirono i due piani superiori. Intorno all’edificio corrono delle edicole con dei Santi protettori delle arti tradizionali.

All’interno due grossi pilastri dividono lo spazio in due navate. Intono gli affreschi dei Santi. Sullo sfondo fa da scenografia il bellissimo tabernacolo gotico scolpito in marmo da Andrea Orcagna.

Giovanni aveva il desiderio di vedere il cervello e allo stesso tempo il polmone pulsante di Firenze che aveva dato vita alla città ossia Piazza della Signoria con il Palazzo Vecchio, luogo di riunione dei più alti personaggi politici e culturali come Niccolò Macchiavelli segretario della Repubblica Fiorentina.

Il Palazzo merlato con le sue finestre bifore si erse con la sua Torre detta dei Foraboschi, alta 94 metri.( Di lassù si gode un panorama inverosimile che si estende dalla città piena di cupole tetti e campanili, alle dolci colline con i cipressi e i vigneti. Sulla piazza vi è la Fontana di Nettuno con il Biancone che è opera dell’Ammannati. Accanto alla Fontana il Monumento Equestre a Cosimo I dei Medici. All’altro lato chiude la Piazza la Loggia della Signoria, chiamata anche dell’Orcagna o dei Lanzi o dei Priori, in stile gotico-fiorentino realizzata dal 1376 al 1384 su progetto di Benci di Gione e Simone Talenti.

Sotto questa Loggia vi sono molti capolavori tra cui il “Ratto di Polissena” di Pio Fedi eseguita nell’Ottocento; Menelao che sorregge il corpo di Patroclo tratto da un originale greco del IV secolo a. c.; il “Grande Perseo in bronzo eseguito da Benvenuto Cellini nel 1533; il “Ratto delle Sabine” opera in marmo scolpita nel 1583 dallo scultore Giambologna ed “Ercole in lotta con il centauro” dello stesso artista.

Di fronte al Palazzo Vecchio vi sono statue famose come il “Gruppo di Ercole e Caco” di Baccio Bandinelli, il David in marmo che è una famosissima copia da quello di Michelangelo e Giuditta e Oloferne in bronzo di Donatello).

Quando Giovanni passò vicino a queste meraviglie e si diresse verso la porta principale del Palazzo della Signoria o del Popolo, sentì nelle sue orecchie le discussioni politiche di quei solerti cittadini fiorentini animati sempre dal loro spirito di rinnovamento. Ormai si trovava nel cuore dell’arte e della politica di quel paese: cioè nel suo polmone pulsante. Mano a mano che entrava in quella sede pensò bene poiché era arrivato il momento, di meditare sull’origine di quel grande movimento artistico che era stato il Rinascimento. Giovanni giustamente, in ogni opera d’arte vedeva vari elementi che si concatenavano con il passato. Ogni artista è figlio del proprio tempo. Ora egli vedeva osservando tutte quelle opere come l’arte fosse nata, oggetto di ornamento, nella Preistoria per poi prendere piede e corpo nel bacino del Mediterraneo, crogiuolo di quasi tutte le razze. Quindi l’esplosione come una super-nova dell’arte greca, che si sviluppò nel periodo classico e si espanse in quello ellenistico, di cui furono protagonisti da principio Mirone, Fidia e Policleto e poi Prassitele, Skopas e Lisippo con la sua scuola. L’Italia alle origini fu contagiata tutta da quest’arte che ebbe il suo massimo fulgore nelle regioni meridionali e centrali. L’Etruria infatti fu una grande nazione in cui i romani stessi prendevano i propri insegnanti. Attraverso i secoli l’arte italica, essendo la penisola una terra di conquiste, ebbe varie influenze. Dopo un lungo periodo bizantino, con Giotto ad esempio, la pittura sfociò in un’altra dimensione che spezzò e frantumò la ieraticità delle figure precedenti, dando ad esse un volto più umano e da qui di pari passo tutte le altre manifestazioni (Architettura e Scultura) non furono da meno. Quindi è lecito pensare che quelle genti in pieno Ottocento così cordiali ed amiche che si muovevano vicino a lui, avevano lo stesso sangue etrusco dei loro antenati illustri artisti e ugualmente per le genti dell’Italia Meridionale, eredi della civiltà greca. Questo ed altro in quel momento andava pensando il suo cervello mentre entrava nel Palazzo del Popolo. In quel momento un povero con delle grucce, con barba ispida e mal vestito, gli chiese garbatamente e sommessamente l’elemosina; mentre più in là, un altro con un occhio bendato da una fascia scura suonava con una manovella. Giovanni fu colpito dalla dignità dei due miseri uomini e ai suoi occhi apparvero come dei signori. Quando egli stava dandogli l’elemosina dalla porta uscì uno sbirro vestito di nero e il poverello con timidezza fuggì via. Ed ecco quasi di stacco da quella scena apparire davanti ai suoi occhi la grande civiltà del passato mentre udiva ancora nei suoi orecchi le note della pianola. Di fronte a lui era il Palazzo Vecchio, con i suoi quasi seicento anni di storia. Quando Firenze era veramente una grande Repubblica, che con le sue leggi, la sua arte ed infine le sue banche dominava gran parte dell’Europa. Infatti il suo nucleo principale fu costruito in sedici lunghi anni ed esattamente dal 1298 al 1314, molto probabilmente su progetto di Arnolfo di Cambio e fu ingrandito successivamente.

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