Sento ancora le viti che si staccano dalla strada, sento le brugole cigolanti di ruggine che girano, nella concitazione di un momento tanto difficile, delicato, drammatico. La notizia è di quelle senza appello: Odessa, città amata dal poeta, vuole cancellare o smantellare il nome di Puskin dalla famosa strada di Odessa che porta il suo nome, per inaugurare una strada italiana. Da italiano dovrei essere orgoglioso, grato, ma qualcosa mi dice che non è così: non posso gioire di miti schiantati. Tutto questo avviene mentre sto vivendo un dramma personale del tutto inaspettato ( spesso l’intimo diviene parte dell’universale). La metafisica agisce per sistemi occulti, per enigmi paralleli, per misteri bilaterali paradossali. Smantellare un mito, talmente radicato nella città è come tagliare le radici di una grande pianta.

Abbattere un monumento del potere passato, è da sempre il simbolo del cambio di qualsiasi regime. È successo anche da noi. Ma nessuna statua di Virgilio è mai stata abbattuta, anche se il regime fascista si è abbondantemente servito della latinità classica. I nazisti avevano bruciato libri, questo è un fatto.

Ma a volte il destino pone delle svolte inaspettatamente.

Pensavo, ai precetti della meccanica quantistica: “nulla si crea niente si distrugge, tutto si trasforma”. Cambiano le facce, i sorrisi, gli sguardi, le convenzioni, gli abiti, le dizioni, i libri, e cambiano i modi di intendere la realtà, perché tutto diventa un fluire nel flusso del tempo nuovo, che lascia ed abbandona alcuni valori per abbracciarne altri. Eppure Pushkin riserva ad Odessa, versi di incontenibile bagliore:

“Io vivevo allora Odessa polverosa
Là da tempo chiari i cieli
Là un baccano di mercanti osa
Issare le sue vele;
Là tutto respira Europa, spira,
Tutto brilla con il sud e attira
Là diversità vive variegata
Là lingua dell’Italia dorata
Risuona sull’allegra passeggiata
Dove cammina lo slavo ameno
Il francese, lo spagnolo, l’armeno,
Sia un greco, che un moldavo pesante,
E il figlio d’Egitto è qui,
Corsaro a riposo, Moralì.”

Sono versi dell’ Eugenio Onegin, nella mia traduzione del capolavoro del poeta, versi sorprendenti per modernità e armonia. Si tratta dell’ultimo controverso capitolo dell’Onegin che va sotto il nome di ” frammenti del viaggio di Onegin”. Il Lotman, il principale esegeta di Puskin ci avvisa nel suo fondamentale commentario che Puskin amava le date. Il frammento fu scritto ad Odessa nel 1825, l’anno decabrista, e si avverte la partecipazione viva del suo autore. Si tratta di letteratura vissuta, dove si evince il rapporto diretto con una città simbolo, che viene eletta dal poeta come un avamposto dell’Europa, un modello di libertà, di pluralismo linguistico, di convivenza tra differenti nazioni. Una città dove ” tutto respira Europa”.

È chiara con questa formula poetica la partecipazione del Puskin decabrista alle vicende dell’Europa del suo tempo, ma è evidente che vi sia una letteratura russa stupendamente inclusivizzata nella visione dell’Europa di Puskin. L’Odessa polverosa, (in questa immagine pare di assistervi nella concitazione di merci e di carri) fatta di mercanti provenienti da varie nazioni, in perfetta mercantile convivenza è quella stessa Odessa vista dal poeta come un avamposto di pluralità. Io stesso ho frequentato Odessa in passato per motivi commerciali. Ne serbo un ricordo sublime, la bellezza del luogo, la meravigliosa apertura dei suoi abitanti, mi faceva ricordare Genova.

Odessa è un simbolo di riconciliazione, di pace, di gioia di vivere. Eppure caro Puskin, vieni a vedere cosa stanno facendo i tuoi discendenti. Passeggiamo un po’ insieme nei giardini che danno verso il mare, fino alla famosa scalinata di Potemkin, tanto ridicolizzata in Italia da filmetti per il popolo. Passeggiamo un po’ insieme per Odessa. La tua statua che ci veglia quanto durerà? Si capisce c’è la guerra. Ma i tuoi versi sono più profondi perché viventi nell’intimo dei tuoi lettori. La poesia è immarcescibile, come diceva Pasolini, inconsumabile.

Probabilmente leggere Puskin ad Odessa adesso è come leggere Lolita a Teheran. Ma bisogna farlo ancora di più adesso, in un contesto tanto ostile. Perché la cultura è la vera arma che salva, e non può essere smantellata la cultura con due viti, nascosta, dimenticata. Tutto passerà nel bene e nel male, ma Eugenio Onegin rimarrà sempre lì a vegliare sui nostri valori, a raccontarci la verità, nella poesia.

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