Leopoldo Siano, classe 1982 è un filosofo della musica ed azionista sonoro. Si trasferisce molto giovane in Germania, dove insegna Musicologia dal 2012 al 2022 presso l’Università di Colonia. E’ autore e curatore di diversi libri (su Stockhausen, Nitsch, Pape, Bayle etc.). Insieme a Shushan Hyusnunts è ideatore del theatrum phonosophicum e dell’omonima serie multisensoriale iniziata nel 2022 alo ‘’Ground Floor’’ della State Philarmonia of Armenia a Yerevan. Attualmente abita a Napoli come ‘’researcher in residence’’ presso il Museo Archivio Laboratorio Hermann Nitsch (fondazione Morra).

Salve professor Siano. Lei musicologo. Partiamo dalle basi: che differenza c’è tra un musicologo e un musicista?

Definirmi tout court come “musicologo” è evidentemente una provocazione… Sì, mea culpa, sono anche un musicologo, giacché ho scritto diversi libri musicologici, ho studiato e poi insegnato per un decennio all’Istituto di Musicologia dell’Università di Colonia, ma la musicologia, così come viene accademicamente intesa (cioè come studio storico-filologico-estetico della musica), ben presto mi è stata troppo stretta. A meno che non si voglia considerare la “musicologia” in senso originario, così come fece Hermann Hesse nel suo tardo romanzo, Il Giuoco delle perle di vetro. Una volta Walter Wiora giustamente disse che la vera musicologia (Musikwissenschaft) non è quella “scienza della musica” nata in epoca positivistica, bensì la più antica delle discipline: le sue radici sono infatti pitagoriche. Ancora nel Medioevo la musica fu parte del quadrivium, accanto ad aritmetica, geometria e astronomia… Più che la musicologia mi sta a cuore la filosofia della musica. Mi interessa pensare attraverso la musica, attraverso i suoni, e considerare la musica sempre in relazione ad altro: al teatro, alla letteratura, alle arti visive, alla mitologia, alle religioni, a rituali, ai simboli, alle piante, agli animali, alle stelle, insomma alla vita. Musica, metafisicamente intesa, come speculum mundi: come “specchio del mondo”. Perciò ad un certo punto, insieme a Shushan Hyusnunts, anziché “musicologia” si è preferito utilizzare il termine phonosophia per designare il nostro lavoro, ovvero: “conoscenza attraverso il suono”… Ma per venire ora in maniera specifica alla domanda postami: mentre il musicista fa musica, il musicologo parla e scrive di musica. L’uno è un pratico, l’altro è un teorico. Ad ogni modo vi sono anche musicisti che sono al contempo musicologi e viceversa. Un tempo era normale che fosse così. La cultura specialistica dei nostri tempi è esiziale. Necessaria è una “teoria della prassi”. Bisogna avere pur sempre un riferimento sonoro che bilanci l’attività speculativa…

La musica ed il rumore. In cosa si differenziano?

Il rumore è, secondo il senso comune, ciò che non vogliamo sentire. Per esempio io non voglio sentire ciò che si sente in quasi tutti i locali pubblici e che i più chiamano “musica”. Dunque già sul termine “musica” ci sono grossi fraintendimenti. Una delle più grandi piaghe dei nostri tempi, una vera e propria pandemia, è la musica di consumo, per esempio la musica “di sottofondo”, la musica che è lì non per essere ascoltata, ma per stordire, per eccitare in maniera grossolana la mente e il corpo, oppure per riempire i vuoti, per paura del silenzio… una tappezzeria sonora che permette di anestetizzare, di non sentire veramente né se stessi, né gli altri, né lo spazio attorno a sé. Di solito, quando mangio al ristorante o prendo un tè al bar, chiedo sempre di abbassare o ancora meglio di spegnere la (cosiddetta) “musica”; la maggior parte delle volte la reazione è di sbigottimento, e talvolta addirittura aggressiva: mi guardano come se fossi un extraterrestre, come se fosse impensabile chiedere una cosa del genere… Sarebbero necessarie non soltanto leggi più specifiche contro l’inquinamento acustico, in generale è urgente un lavoro globale di sensibilizzazione al suono, di acculturazione. D’altronde anche della parola cultura non si può dare una definizione univoca. Simone Weil disse: cultura è “arte dell’attenzione”. In fondo il rumore esteriore è una esternazione del rumore interiore, del rumore prodotto dai pensieri parassiti, dal continuo chiacchierio mentale incontrollato, dalla continua “busyness”, dall’essere sempre occupati, dalla compulsività a dover fare sempre qualcosa, la quale viene oggi ulteriormente alimentata dai “device” tecnologici vari.

AKRÓASIS. Dalla cicala a Maria Callas…” (omaggio a Marius Schneider). Lecture-performance inaugurale per il festival PHONOSOPHIA (Attigliano, Giugno 2024) (foto di Assunta Fanuli)

Spesso qualche critico musicale ha definito “rumore” le esperienze dodecafoniche iniziate lo scorso secolo, per esempio.

“Tutto è rumore per coloro che hanno paura”, così fa dire Sofocle ad Antigone… Che cos’è la “musica”? Chissà… Non si può definire. Il concetto di “musica”, come hanno spiegato tanti studi antropologici, è variabile da cultura a cultura… Per gli antichi Greci la musica è qualcosa che ha a che fare innanzitutto con le Muse. Pitagora e Platone parlarono dell’“armonia delle sfere”. E ancora nel Medioevo si faceva distinzione tra musica instrumentalis (la musica “terrena”, quella fatta con voci e strumenti), musica humana (la musica all’interno dell’uomo: il corpo, le emozioni, l’intelletto) e musica mundana (la musica prodotta dal movimento degli astri), che è la forma più alta di musica. La musica è dunque “specchio del mondo”, come si diceva. Perciò essa può contenere tutto: sia la più dolce consonanza che la più aspra dissonanza che il più assordante rumore. C’è un frammento di Eraclito in cui si dice che l’armonia occulta (harmonia aphanes) è più potente dell’armonia palese…. La musica, come l’arte in generale, non deve soltanto essere “piacevole”, altrimenti sarebbe “intrattenimento”. Eppure la musica ha indubbiamente a che fare con il piacere (il “plaisir” di cui parlavano Debussy o Baudelaire), ma è qualcosa di molto profondo, il piacere può essere anche abissale… Perfino la musica dodecafonica può dare “piacere” se la si sa ascoltare. Non si tratta tanto di nozioni preliminari che bisogna possedere prima di mettersi in ascolto; assai più importante è lo stato mentale in cui ci si predispone. Comunque le esperienze dodecafoniche rappresentarono soltanto un piccolo capitolo nel Novecento, che è stato un secolo ricchissimo di musiche e tra le più diverse… In nessun secolo precedente vi è stata una così estrema varietà di espressione: vi è Schönberg e vi è Gershwin, v’è Ravel e v’è Charles Ives, v’è Richard Strauss e v’è Anton Webern, v’è John Cage v’è La Monte Young, v’è lo stile “tintinnabuli” di Arvo Pärt e v’è la “musica astronica” di Stockhausen, v’è il minimalismo e lo spettralismo, la musica acusmatica e la “musique concrète instrumentale”, v’è il purismo di Morton Feldman e il polistilismo di Schnittke, v’è la “musica su una sola nota” di Giacinto Scelsi e la musica stocastica di Iannis Xenakis, eccetera eccetera eccetera. Non sa che cosa si perde chi non studia e non conosce queste musiche!

Marius Schneider è considerato ad oggi una colonna portante dello studio dell’origine della musica. Perché ci siamo così tanto allontanati dalla “musica primitiva”?

Perché siamo essere umani. E l’essere umano ha ricevuto in dono il fuoco da Prometeo, la techné. Vi è qualcosa di spiccatamente prometeico e faustiano, ovvero luciferico, nella storia dell’umanità. Si tratta di processi evolutivi assai complessi che del resto non riguardano soltanto la musica. Allontanarsi dalla musica primitiva è stato “necessario”, altrimenti non vi sarebbe stati né Bach né Mozart. Eppure è fondamentale essere consapevoli da dove veniamo e riscoprire una certa istintualità nei confronti del suono, connettendosi col caos vitale del proprio inconscio. L’ascolto delle musiche tradizionali di altre culture può essere illuminante; non parlo del folklorismo di bassa lega, ma di quelle autentiche: dall’India al Giappone, dall’Iran a Bali, dal Tibet alla Corea e alla Cina. Così come pure delle musiche popolari ai noi più vicine: dalle polifonie sarde al flamenco andaluso, dallo jodel svizzero alle musiche balcaniche. Paradossalmente è proprio grazie alla tecnologia, alle registrazioni sonore, che possiamo oggi entrare in contatto con mondi sonori arcaici ormai scomparsi o quasi del tutto. E v’è da dire che numerosi compositori del Novecento hanno mostrato tendenze arcaicizzanti, “primitivistiche”: da Igor Stravinsky a Carl Orff, da Harry Partch a Iancu Dumitrescu, da Michael Vetter a Charlemagne Palestine etc.

Parziwal + ~ ~ ~ H.N. Una ‘durational performance’ in memoriam Hermann Nitsch, ispirata dal Parsifal di Richard Wagner della State Philharmonia of Armenia (Yerevan), 23 marzo 2023 (Foto di Mariam Hakobyan)

Ci vuole parlare del suo progetto legato alla “phonosophia” e del “theatrum phonosophicum”?

Il theatrum phonosophicum è un progetto di ricerca, nato insieme a Shushan Hyusnunts. È il “teatro della phonosophia”, con cui ci impegniamo a diffondere una nuova cultura del suono e del silenzio: attraverso seminari, workshop, lezioni performative e varie altre iniziative. (Ci si può informare sul nostro sito internet: https://theatrumphonosophicum.art/). Intendiamo la “phonosophia” come “conoscenza attraverso il suono”. È qualcosa che va ben al di là della musica… Giacinto Scelsi diceva: “il suono può esistere senza la musica, ma la musica non può esistere senza il suono”. La musica è, come Dio, indefinibile. Il suono invece è qualcosa di più generale, di più “concreto”, seppur impalpabile… E poi il “suono del mondo” è sempre attorno a noi: tra i nostri grandi ispiratori vi sono John Cage, filosofo del silenzio, e R. Murray Schafer, il padre degli studi sul “paesaggio sonoro” e dell’ecologia acustica. L’ascolto, come “esperienza dell’essere”, è il fulcro nevralgico della phonosophia… Il theatrum phonosophicum è un progetto di ricerca e di vita che incoraggia a creare spazi esperienziali in cui antichi saperi della Tradizione si coniugano con pratiche sperimentali: dalla ‘lecture-performance’ all’installazione, dalla sound art all’acusmatica e al “cinema per le orecchie”, dal “deep listening” alla “field recording” etc. Si tratta dunque di una conoscenza che non è solo libresca, ma di un sapere vissuto, di qualcosa che va esperito attraverso i sensi e ciò che sta dietro i sensi. Da qui l’aspirazione alla sintesi delle arti, al Gesamtkunstwerk: dal teatro greco antico a Richard Wagner e alle avanguardie.

Secondo Lei quanto è stato importante Richard Wagner nella musica? Si può dire che c’è un prima ed un dopo Wagner?

La musica di Wagner è come una droga. Mai un musicista ha influenzato in maniera così vigorosa la cultura, quella del suo tempo e quella dopo di lui. Sì, perché Wagner non ha soltanto influenzato musicisti, ma pure poeti, letterati d’ogni sorta, teatranti, artisti visuali, architetti, filosofi e financo uomini politici… Ciò è stato mostrato magistralmente da Alex Ross in una recente pubblicazione: Wagnerismi. Arte e politica all’ombra della musica (Bompiani 2022). Wagner non fu un mero ‘Tonsetzer’ (compositore), qualcuno che “scrive note”, che mette suoni gli uni accanto agli altri. In Wagner il sostrato filosofico, il pensiero, è tanto importante quanto i suoni stessi. Per la prima volta un compositore non scrive soltanto musica, ma anche il testo poetico del dramma, si occupa della messa in scena, dirige l’orchestra e redige corposi scritti teorici per sistematizzare e legittimare le proprie visioni artistiche. Wagner concepì il suo lavoro come un tutto e come un unicum: egli creò un intero cosmo. L’eco dell’opera wagneriana – con la sua aspirazione al Gesamtkunstwerk (l’opera d’arte totale), la sua aura sinestetica e magico-religiosa – è stata potentissima, attraversando tutto il Novecento e arrivando fino a noi.

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