Il Patto di stabilità e crescita (Stability and Growth Pact) è un accordo tra i Paesi membri dell’Unione europea basato fondamentalmente sul rispetto di due parametri di bilancio: il deficit pubblico (cioè, la differenza tra entrate e uscite, comprese le spese per interessi) che non deve superare il 3% del Pil ed il debito pubblico che non deve superare il 60% del Pil. La maggior parte dei Paesi membri sono molto lontani da quest’ultimo parametro. Ecco perché il Patto di stabilità prevede, in alternativa, la necessità di dimostrare “un calo a un ritmo soddisfacente”. Significa che “il divario tra il livello del debito di un Paese e il riferimento del 60% deve essere ridotto di un ventesimo all’anno”, calcolato come media di un triennio in pratica un percorso concordato di rientro dal debito.
Formalmente, il patto di stabilità e di crescita è costituito da una risoluzione del Consiglio europeo (adottata nel 1997) e da due regolamenti del Consiglio del 7 luglio 1997 che ne precisano gli aspetti tecnici in termini di controllo della situazione di bilancio e del coordinamento delle politiche economiche e applicazione della procedura d’intervento in caso di deficit eccessivi.
Le norme del Patto di stabilità e crescita “mirano a evitare che le politiche di bilancio vadano in direzioni potenzialmente problematiche” e a “correggere disavanzi di bilancio o livelli del debito pubblico eccessivi”. In sostanza, il patto esiste per evitare che gli squilibri interni e la mancanza di rigore di un singolo Stato possano coinvolgere la tenuta finanziaria dell’intera unione europea.
Nel caso in cui i limiti del Patto di stabilità non vengano rispettati, la Commissione Ue può far partire una procedura di infrazione che prevede varie fasi:
- se il disavanzo di un Paese membro si avvicina al tetto del 3% del PIL, la Commissione europea propone, ed il Consiglio dei ministri europei in sede di Ecofin approva, un “avvertimento preventivo” (early warning) alla quale seguono delle “raccomandazioni”, cioè, indicazioni operative di politiche di bilancio pubblico
- se a seguito della raccomandazione lo stato interessato non adotta sufficienti misure correttive potrebbe scattare la sanzione che assume la forma di un deposito infruttifero, da convertire in ammenda dopo due anni di persistenza del deficit eccessivo. L’ammontare della sanzione presenta una componente fissa pari allo 0,2% del PIL ed una variabile pari ad 1/10 dello scostamento del disavanzo pubblico dalla soglia del 3%. È comunque previsto un tetto massimo all’entità complessiva della sanzione, pari allo 0,5% del PIL.
Il patto di stabilità in seguito alla crisi pandemica è stato sospeso fino a tutto il 2023 e la commissione europea ha presentato una proposta di riforma di uno strumento che nel tempo ha mostrato forti limiti di effettiva applicazione. Basti pensare che di fatto nessuna sanzione è stata mai irrorata a nessuno stato indisciplinato.
L’opinione degli economisti è che il ritorno al patto di stabilità come precedentemente descritto è sostanzialmente inattuabile per nazioni come l’Italia che hanno un alto debito pubblico. Per fare un esempio numerico: per il bilancio italiano la diminuzione di un ventesimo della parte eccedente il limite del 60% del rapporto debito pubblico/ Pil significherebbe tagli di bilancio annuali di 60-80 miliardi per i prossimi venti anni, visto che attualmente il rapporto debito pubblico/Pil in Italia si assesta al 144,4%.
Il mancato rinnovo del patto di stabilità, anche se questo può sembrare paradossale, potrebbe avere ripercussioni molto negative per l’Italia, in quanto sarebbe percepito come un segnale di debolezza finanziaria dai mercati, spingendo verso l’alto i tassi di interesse sul nostro debito pubblico già fortemente cresciuti per effetto dell’inflazione.
La Commissione Europea ha proposto una riforma del patto di stabilità che, pur mantenendo i parametri di bilancio sopra descritti modifichi il processo di assestamento dei singoli stati eliminando il riferimento della diminuzione del 5% anno del rapporto debito/Pil ed attuando nei fatti un percorso personalizzato di assestamento di bilancio per ogni singolo stato.
In pratica ogni nazione non in regola con uno dei due parametri sopra elencati dovrà presentare un piano a medio termine (4 o 7 anni) che contenga non solo gli obiettivi di rientro del deficit ma anche le riforme e gli investimenti prioritari che mirino ad una stabilizzazione di lungo periodo. Il piano sarà poi esaminato ed approvato da Commissione e Consiglio della Ue. Ogni piano dovrà contenere obiettivi di rientro di spesa pluriennali, che saranno poi utilizzati come base per la sorveglianza fiscale dello stato in questione. In pratica un vestito su misura costruito per ogni singola nazione.
Cambia inoltre la definizione contabile di deficit basato sul nuovo concetto di “spesa netta”, cioè al netto delle spese per interessi sul debito pubblico, ed al netto delle spese collegate all’andamento dei cicli economici (ad esempio il finanziamento della cassa integrazione guadagni). Si tratta dunque di un sottoinsieme della spesa, non influenzato dal ciclo economico, che quindi è sotto il controllo diretto da parte dei governi. In ogni caso nel caso di superamento del rapporto deficit /pil del 3% è imposta una riduzione di almeno lo 0,5% annuo.
La proposta della Commissione è stata appoggiata fortemente dalla Francia, mentre l’Italia attraverso il nostro ministro Giorgetti ha chiesto che nel computo della spesa netta non rientrino le spese per gli investimenti strategici.
La Germania ed i Paesi bassi vorrebbero un parametro numerico fisso che imponesse ai paesi che superino il rapporto debito/pil del 60% un vincolo di riduzione annua del 1% in luogo del precedente 5%, che tradotto in soldoni per un paese come l’Italia significherebbe circa 20 miliardi annui di diminuzione annua di spesa per molti esercizi.
Vedremo come finirà la partita, ma ad una prima impressione sembra che la governance europea continui ad assomigliare ad una rissosa assemblea condominiale che si rifiuta di prendere decisioni che potrebbero sembrare impopolari nelle singole nazioni.
Le nazioni europee che hanno aderito all’Euro hanno una politica monetaria unica ma non hanno alcuna forma di coordinamento delle politiche fiscali ed è un po’ come se le due gambe appartenenti ad uno stesso individuo vengono controllati da due cervelli diversi che non si coordinino fra di loro. In Europa esistono sistemi fiscali e contributivi profondamente diversi, che in alcuni casi sono stati usati dalle singole nazioni, in una sorta di dumping fiscale, per attrarre nella propria nazione le grandi multinazionali ed i singoli facoltosi cittadini.
Politiche comuni di bilancio europee coordinate a livello centrale permetterebbero anche una gestione europea del debito pubblico che da nazionale diventerebbe almeno in parte europeo. Una parte del debito pubblico delle nazioni sovraindebitate acquistato dalla BCE potrebbe essere allungato fortemente nelle scadenze in modo da diminuire la richiesta di approvvigionamento sui mercati delle singole nazioni.
La riforma del patto d stabilità è una buona cosa, ma sembra nascondere il vero problema della UE cioè una riforma del meccanismo di governance ed un coordinamento obbligatorio delle politiche fiscali dei paesi membri
Albert Einstein ha definito come la più alta forma di stupidità la ripetizione reiterata del medesimo esperimento accompagnata dall’aspettativa di raggiungere dei risultati differenti. Mi sembra purtroppo una metafora che si adatta perfettamente alle politiche europee degli ultimi anni.