Il movimento della Nouvelle Vague cominciò ad affermarsi tra la fine degli anni 50 e l’inizio degli anni 60 in Francia. Francois Truffaut, Jean Luc Godard, Jaques Rivette, Claude Chabrol, Eric Rohmer crearono questo nuovo movimento. Iniziarono la loro attività cinematografica prima come critici ( Cahiers du Cinèma) e poi come registi. Sin da epoche più antiche l’artista ha sempre lottato per uscire dall’anonimato. Sin dal 1400 era considerato un artigiano. Nel Rinascimento con l’affermazione di Leon Battista Alberti abbiamo un nuovo artista moderno che si identifica con l’architetto. Una figura autoriale che unisce in sé perizia tecnica e propensione intellettuale. Nel 1929 nasce lo Studio System. Con questo termine si definisce l’organizzazione integrata di produzione, distribuzione ed esercizio dominata da un insieme di case di produzione suddivise tra Majors o Big Five (MGM, Metro Goldwyn Mayer, Paramount, Fox, Warner e RKO) e Minors o Little Three (Universal, Columbia e United Artists). In questo sistema il regista da autore libero e indipendente si trasformerà in un “impiegato” tecnicamente preparato degli Studios. In questo periodo il produttore tenderà sempre a voler essere il dominatore incontrastato del film. I registi-teorici della Nouvelle Vague rivaluteranno la figura del regista come autore e padre spirituale del film. Il regista è un poeta colto e raffinato cantore dei sentimenti umani. Il lungometraggio non è più sotto il controllo totalitario del produttore come avveniva nello Studio System. Il regista-autore ritorna ad essere al centro dell’attività cinematografica (dalla sceneggiatura, montaggio e alla realizzazione del film). La “Politiques des auteurs” rivaluterà grandi autori del cinema classico (Orson Welles, William Wyler, Billy Wilder) e del Neorealismo. Grandi personalità molto sottovalutate nei periodi precedenti. I registi della Nouvelle Vague girano i loro film con assoluta libertà e leggerezza. Sono autori giovani che rivitalizzano il set con vivacità ed energia. Il cast si trasforma in un’equipe dinamica e aperta al cambiamento. Il film è una cellula aperta che si trasforma costantemente e creativamente. La sceneggiatura è un’opera che varia in continuazione durante tutta la lavorazione del film. Una scrittura libera e inconsueta che va oltre le regole sintattiche stabilite. I registi diventano produttori creando un nuovo modello di produzione autonomo e a basso costo. Francois Truffaut sosteneva che il giovane cineasta non doveva lavorare contro i produttori e il pubblico, ma doveva convincerli, farli estasiare, sedurli. Bisogna amare ciò che si gira per fare in modo che il pubblico se ne innamori. La rivoluzione della Nouvelle Vague e la sua ricchezza e libertà di linguaggio porteranno alla nascita di altri movimenti affini come il Free Cinema inglese, il New American Cinema, il Cinema Novo brasiliano, la Nova Vlnà cecoslovacca e lo Junger Deutscher film. Nouvelle Vague e Neorealismo si fondono creando un’estetica di impegno sociale e civile di cui il nuovo regista autore si fa portavoce. Il regista è un cantore della libertà. Ricordiamo per esempio Francois Truffaut che nel 1959 girò i “Quattrocento colpi”. Il ragazzo Antoine Doinel (interpretato da Jean-Pierre Lèaud) è un giovane ribelle alter ego del regista. Antoine era un figlio indesiderato e manifestava tutto il suo malessere comportandosi male, marinando la scuola, frequentando cattive compagnie. I genitori decisero di punirlo mandandolo al riformatorio. La struttura non era un ambiente educativo ma un carcere che soffocava ogni tipo di libertà. La scena nella quale Antoine scappa dal riformatorio è densa di libertà e amore per la vita. Ognuno di noi si identificherebbe con il protagonista nei momenti più duri della propria vita, quando si vorrebbe scappare da qualcosa di terribile e opprimente. Correre a perdifiato per raggiungere la libertà.
Teofilo ascoltava affascinato la storia della Nouvelle Vague. Era rimasto colpito dal coraggio di questo gruppo di registi che avevano portato il cinema nella Storia dell’arte. Continuava a seguire affascinato le sagge parole di Enzo. Camminavano per le strade e i vicoli di Roma attraversando cortili, piazze e chiese. I discorsi sul cinema e l’arte continuavano a fluire con semplicità e armonia. Enzo iniziò a parlare del film “Sacro GRA” (2013) di Gianfranco Rosi (Asmara, Eritrea 1963). Mentre Teofilo ascoltava con attenzione la pellicola sembrava materializzarsi davanti ai suoi occhi. Luoghi personaggi e situazioni scorrevano davanti a lui come in un sogno.

“Sacro GRA “ è un film che racconta la vita della periferia e della strada. La macchina da presa trasporta lo spettatore lungo il Grande Raccordo Anulare in un pellegrinaggio fatto di povertà, dolore, amore e speranza. L’autostrada è la giungla d’asfalto che bisogna affrontare ogni giorno. In mezzo al fitto caos delle automobili si sente ogni tanto il suono delle ambulanze che trasportano persone ferite o in fin di vita reduci da incidenti stradali. I barellieri lavorano e si sacrificano tra i feriti. Un lavoro duro e snervante che riescono a sostenere con forza e coraggio. L’operatore del 118 incoraggia la persona ferita che porta in ospedale dandogli speranza. È dura vivere in questa savana d’asfalto che a volte uccide e a volte risparmia vite umane. Noi comuni mortali vediamo come pirandelliani spettatori di noi stessi e della vita, il lento scorrere delle macchine che scandiscono il tempo del mondo della strada. Dalla sofferenza che c’è sul nostro cammino traiamo esperienza e fede. È nel sacrificio e nella lotta che si raggiunge la felicità. Ognuno di noi dovrebbe imparare dai personaggi più umili. Ogni giorno è un costante ripartire da zero che dobbiamo riempire con la fede. Il film rappresenta una serie di personaggi vinti che ci portano ad amare e a valorizzare la nostra vita. Bisogna imparare ad uscire fuori dalla società iperconsumistica per costruire una società più equa e solidale. L’isolamento e la disoccupazione non ci devono scoraggiare ma devono essere una spinta verso un cambiamento innovativo attraverso la forza della cultura. Il pellegrinaggio nella periferia è un andare verso l’altro, valorizzarlo e svilupparne le potenzialità. Non bisogna mai arrendersi. Il personaggio del botanico che lotta con ogni rudimentale mezzo per debellare le larve che infestano le palme ci insegna a non mollare mai, a perseverare per raggiungere ogni nostro obiettivo.
Teofilo si risvegliò dal suo stato di dormi-veglia e continuò ad ascoltare la voce di Enzo. Il film “Sacro GRA” lo aveva molto affascinato e ne aveva tratto un saggio insegnamento. Ora si ritrovavano a peregrinare insieme all’interno di un grande spazio teatrale vuoto. Enzo parlava di svariati autori e drammaturghi del teatro italiano del 900. Sembrava di sentire risuonare all’interno dello spazio scenico la voce di Pirandello e di Eduardo De Filippo. Il personaggio eduardiano di Zi’ Nicola (ripreso da le “Voci di dentro” commedia in tre atti del 1948) sembrava uscire fuori dal fondo della sala e comunicava attraverso il linguaggio dei botti. Teofilo ed Enzo ascoltavano con attenzione e dedizione quello strano idioma che lentamente riuscivano a capire. La voce di Zi’ Nicola si fece sempre più comprensibile e trasmetteva il seguente messaggio: “Solo la responsabilità di ciascuno, l’impegno di ciascuno possono salvare concretamente la misura umana del vivere”.

Teofilo ed Enzo continuavano il loro pellegrinaggio nella città. Attraversavano vicoli, parchi e spiazzi. Ogni quartiere che percorrevano era come un’isola da scoprire passo dopo passo. Che cosa c’è oltre un muro o una siepe? Alcune barriere e confini ci lasciano immaginare che dietro di essi si celi qualcosa di magico. Enzo iniziò a parlare della lotta tra il bene e il male collegandola al film “Shining”(1980) di Stanley Kubrick. Uno scrittore Jack Torrance (Jack Nicholson) decide di lavorare come guardiano presso l’Overlook Hotel durante il periodo invernale. Porterà sul posto anche la moglie Wendy (Shelley Duval) e il figlio Danny (Lloyd). Lo scrittore verrà travolto dal male che lo contaminerà fino a fargli perdere completamente la ragione. In balìa delle forze demoniache del male uccideva tutto quello che incontrava davanti a lui. L’Hotel si era trasformato in un grande incubatore del male che evocava allucinazioni e ricordi di un passato ostile, denso di eventi rimossi dal tempo. Dai bassifondi dell’albergo emergevano vicende di corruzione, mafia e omicidi legati alle persone che erano state in quelle camere. Il padre di Danny accecato dal male non riconosceva nemmeno più il figlio che voleva uccidere senza pietà. Danny grazie ai suoi poteri extrasensoriali (la luccicanza dello Shining) riuscirà a vincere le forze del male. C’è sempre un bagliore di luce nell’oscurità. Danny rappresenta la speranza di abbattere il male che è in fondo al cuore di ognuno di noi. Mentre Teofilo ed Enzo il cantastorie discorrevano insieme alzarono i loro occhi al cielo della sera illuminato da una miriade di stelle. L’immensità dello spazio siderale si mostrava davanti alla loro vista in tutto il suo splendore. Si sentivano come sospesi sull’infinito. Mentre pensavano al concetto di infinito si materializzò l’anima dell’artista contemporaneo Roman Opalka (Francia,1931, Abbaville-Saint-Lucien). Egli rappresentò sul quadro il tempo che passa attraverso una serie numerica. Voleva raffigurare il tempo nella sua dimensione immateriale. Il tempo ci influenza, ci porta con sé e a volte è anche tiranno. L’artista visse assieme alla sua famiglia il dramma della deportazione dalla Polonia alla Germania. Le prime opere monocrome bianche di genere riduzionistico sono influenzate dal minimalismo americano. Nel 1965 l’artista iniziò a rappresentare sul quadro (pittura bianca su sfondo nero) l’opera “1965/1-infinito”. I numeri dall’1 all’infinito scorrono davanti ai nostri occhi e ci danno la percezione del tempo come un tutto che ci immerge nel suo magma immateriale. Anche nei suoi autoritratti fotografici in bianco e nero, l’artista rappresenta il tempo che scolpisce il suo viso fino alla sua morte (2011). Le espressioni del viso di Opalka emanano saggezza e amore per la vita. Bisogna amare valorizzare e vivere intensamente ogni momento della nostra vita fino alla fine.
Mentre Teofilo camminava nell’oscurità rifletteva sui preziosi insegnamenti del cantastorie. Improvvisamente il suo stato d’animo si turbò. Pensava al Covid 19 il terribile malattia che stava facendo molte vittime in Italia e nel mondo. Era molto scoraggiato. In quel momento vide il Enzo sparire come se vedesse davanti a sé un drone che vola. L’oscurità si stava lentamente dissolvendo per fare spazio a un’intensa luminosità. Il cuore di Teofilo si riempì di speranza quando vide l’anima di Giuseppe Ungaretti che gli sorrideva da lontano. Il poeta voleva trasmettergli fiducia e coraggio. Voleva spronarlo per continuare a divulgare la cultura.