Leonardo Saraceni consolida la propria indole artistica, la tecnica pianistica e l’intuizione compositiva, iniziando a studiare da giovanissimo con il Maestro Luigi Roig, sudamericano, che lo guiderà attraverso una formazione ampia e cosmopolita. Enfant prodige, esegue a undici anni il suo primo concerto da solista. Nel 1992 inizia la carriera concertistica, che ancora oggi lo vede acclamato interprete in molte città europee ed oltreoceano; la sua ultima opera, il Piano Concerto n.1 op.15, è stata da egli stesso eseguita in prima mondiale ad agosto 2010 nella città di Guanajuato (Messico), in occasione del Festival del Verano, presso il Teatro Nazionale Juarez, diretto dal Maestro Jose Maria Melgar; nel 2013 è invitato ed esegue in Romania il Piano Concerto n.1 op.15 in Prima Europea, con la Filarmonica Banatul. Vanta collaborazioni internazionali, sia come concertista che come compositore e docente. Sue composizioni eseguite in RAI Radio 2, nonché regolarmente inserite nei programmi concertistici di molti interpreti, alcuni dei quali le hanno anche incise in CD. Ha collaborato con Casa Ricordi in occasione del progetto didattico Ricordi-Scuola.

Maestro, ci parli in breve della sua esperienza come musicista…

Ho iniziato lo studio del Pianoforte a cinque anni e a undici ho fatto il mio primo concerto da solista. Il mio maestro, Luigi Roig, sudamericano di Costa Rica, mi proiettò in una dimensione musicale cosmopolita, fatta di valide e considerevoli esperienze, che mi ha sempre accompagnato in tutta la mia crescita artistica. In questo sono stato fortunato, perché benché vivessi i miei anni di formazione in una dimensione culturale ristretta, tipica dei paesi di provincia, ho comunque potuto sentirmi a mio agio rapportandomi con realtà artistiche di riconosciuta valenza, da cui ho acquisito significative esperienze di crescita, in campo musicale e a livello umano. Oggi ho una lusinghiera attività internazionale veramente gratificante, sia come pianista interprete che compositore e didatta. Le mie composizioni sono eseguite in tutto il mondo, alcuni interpreti le hanno anche incise e altri sono in procinto di farlo. Riguardo la mia attività concertistica, attualmente sono seguito dalla CMS di Vienna, mentre l’attività didattica prosegue con successo ormai da più di trent’anni attraverso la Scuola di Musica “F. Cilea”, che ho fondato nel 1989 e attraverso le Master Classes per gli studenti universitari. Ovviamente studio ogni giorno, non si può insegnare ciò che non si sa suonare, né si può amare la musica senza esserne umili esecutori, al suo servizio, attraverso le emozioni che ci regala sempre in modo diverso.

Ha mai studiato il patrimonio etnomusicologico della sua terra di origine?

Sono stato studente al DAMS, a Bologna, allievo del compianto Roberto Leydi, il padre della etnomusicologia italiana. Con lui ho approfondito alcuni aspetti significativi del patrimonio etnomusicologico, in particolare quello della provincia di Cosenza, ma comunque non solo. In questo territorio gravitano anche alcune comunità di lingua arbëreshe. Interessante è stato approfondire il connubio fra la tradizione popolare tipica della Calabria e quella delle minoranze etniche arbëreshe, appunto. Le due tradizioni non si sono mai fuse tra di loro, come spesso avviene, storicamente parlando, ma hanno comunque coabitato parallelamente, cosa che avviene ancora oggi. C’è da dire che a livello antropologico e etnomusicale stiamo in questa epoca assistendo a una sorta di involuzione, di decadenza, nel senso che molti amatori, autoproclamatisi “ricercatori” (cioè quei dilettanti per niente acculturati e ignari dei significati storico-filologico-semantico-metaforici delle tradizioni, comprese quelle orali) esprimono pseudo composizioni musicali di poco conto. Non voglio generalizzare, ovviamente, ma il fenomeno è in preoccupante crescita e getta ombra su tutta l’attività di un Béla Bartòk, di un Heitor Villa-Lobos o di Zoltán Kodály, solo per citarne alcuni. Pensa per esempio che i ritmi delle danze delle Suite inglesi e francesi di Bach trovano origine nella colonizzazione degli afro-americani trapiantati in Europa. Rimpiango le pubblicazioni effettuate da Albatros, in particolare “Zampogne. Italia 1 e 2”, curate proprio da Leydi e di cui conservo gelosamente tutti i vinili.

Quale è, secondo la sua esperienza, la parte d’Europa e/o del mondo dove la musica classica è ancora ascoltata da una bella fetta di popolazione ? Dove si respira ancora quell’aria ottocentesca?

Ben sappiamo che la Musica, quella a cui fai riferimento nella domanda, l’abbiamo inventata noi italiani, attraverso tutti gli stili, dai primordi al Gregoriano fino a tutta la musica strumentale e all’Opera. Detto questo, e pensando a quella che è stata ed è la mia esperienza, farei una distinzione: da una parte considererei il semplice ascolto, dall’altro lo studio serio e accademico. In questi due casi attribuirei alla Spagna e all’Austria entrambi i primati. A seguire metterei la Germania a cui attribuirei anche un altro primato, quello della sperimentazione, iniziata da Arnold Schomberg e, prima di lui a proposito del Teatro dell’Opera Nazionale, da Richard Wagner. E’ un caso a sé l’Inghilterra, dove si riuniscono un po’ tutti, è l’unico Paese dove se vicino all’ansamble che suona ai matrimoni e/o alle sagre della birra scrivi il termine “Royal”, in automatico ti puoi “vendere” come un grande artista. Pertanto in Inghilterra si respira un’aria musicale molto variegata, senza indubbiamente disconoscere che vanta illustri tradizioni, non come il resto dell’Europa, ma comunque di tutto rispetto, penso a Henry Purcell, William Boyce fino ai contemporanei come Ralph Vaughan Williams e Arthur Bliss. Nel resto del mondo metterei ai primi posti la Cina e gli USA, con particolare riferimento al Messico; sono Paesi dove la musica colta ha un grande seguito, grazie anche alla presenza di fantastiche strutture messe a disposizione dei Conservatori e dei Campus universitari, comprese le innumerevoli Sale da Concerto e i Teatri. Mi piace ricordare a questo proposito il Teatro Juarez, uno dei più belli al mondo, si trova in Messico, a Guanajuato, città patrimonio dell’Unesco. In questo meraviglioso teatro ho suonato in Prima Mondiale il mio Piano Concerto op. 15, diretto dal M° Josè Maria Melgar, sullo stesso pianoforte che fu di Claudio Arrau. In Italia, il cui solo nome mi regala all’Estero il massimo rispetto, non mancano i luoghi dove si continua a respirare quell’aria ottocentesca a cui fai riferimento. Ci sono infatti “luoghi di musica”, bellissimi, e istituzioni di altissimo livello e indiscutibile tradizione; prova ne è che l’attività musicale italiana è sempre e comunque la più imitata, infatti siamo al primo posto nel mondo per quanto riguarda la produzione musicale, di qualsiasi genere, con le dovute eccezioni, naturalmente.

Quali sono le composizioni musicali del patrimonio musicale religioso e sacro che più apprezza?

La musica sacra va considerata essenzialmente come parte integrante della liturgia, avendo come fine la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli. In questo contesto è una musica sempre viva, anche se ha radici nelle primitive comunità cristiane, penso per esempio a quelle esortate dall’apostolo Paolo “a cantare a Dio di cuore e con gratitudine i salmi, gli inni e i cantici spirituali”. Il mio maestro un giorno mi disse che “la musica è l’anello di congiunzione fra te e Dio” e la cosa mi lasciò dentro un segno indelebile a cui a volte ancora oggi penso con particolare emozione. A questo proposito invito i lettori a immergersi nel Canto Gregoriano e nei cori a cappella di Palestrina. Queste sono le composizioni musicali più vicine al mio carattere in assoluto. Aggiungerei a queste l’Ave Verum Corpus di Mozart e la Messa in Do Maggiore op. 86 di Beethoven, la Pastorale di Brahms e l’Agnus Dei di Bizet, senza tralasciare le opere degli italiani come Corelli, Durante, Cherubini.

La diffusione della tecnologia ha rovinato l’ascolto della musica?

Penso, e non sono il solo, che la musica sia eterna, oltre che un mezzo di comunicazione che supera il tempo e lo spazio e proprio per questo in continua evoluzione. Voglio dire che è normale che si adatti alla realtà che attraversa nel tempo adeguandosi alle persone, ai cambiamenti e di conseguenza anche alle nuove tecnologie. In questo contesto tende spesso a mutare nella propria struttura, mi riferisco al modo di “assemblare” i suoni, ma non perde la sua essenza, pur adattandosi all’evolversi degli strumenti con cui la si diffonde. Indubbiamente il mondo dei social media è riuscito a far scoprire la musica sotto nuovi aspetti. C’è però, è vero, la nostalgia del vinile, il “calore” del suono, confrontato a un mp3 è ben diverso, oserei dire inesistente. Pensa che il primo LP (long play) mai realizzato, fu prodotto dalla Columbia Records ed è intitolato ML4001; la musica incisa all’interno è, guarda caso, il “Concerto di Violino di Mendelssohn in MI Minore”, interpretato da Milstein con l’Orchestra Filarmonica-Sinfonica di New York, condotta da Bruno Walter. In seguito è stata la RCA italiana a realizzare il formato più piccolo e meno capiente, il 45 giri, detto EP. Ma al di là di tutto, nostalgia e calore a parte, penso che ciò che conti di più sia la possibilità che ogni musicista ha nel diffondere la propria musica, qualsiasi sia il mezzo, al di là della buona o meno buona qualità del suono.

Print Friendly, PDF & Email