«(Non omnis) arbusta iuvant humilesque Myricae».

Non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici. Il titolo della raccolta di Giovanni Pascoli, Myricae, derivante da una parte del secondo verso della IV Bucolica di Virgilio, è quell’esempio letterario che coglie quel parallelo tra ciò che è, apparentemente, semplice e, dunque, non particolarmente apprezzato dal lettore “comune”, e ciò che, invece, richiedendo una chiave di lettura erudita, può essere meglio compreso da quel pubblico che intende la forza del testo nelle sue molteplici sfaccettature.

Questo principio poetico è il metro di paragone per cui ciò che “ci vive” attorno, ovvero, il patrimonio culturale, quello di natura storica e artistica, ha intrinsecamente la nobile lirica e l’umile prosaicità. È, di fatti, una medaglia osservata da un vasto pubblico, da coloro che si approcciano, consapevolmente e inconsapevolmente, alla visione, alla lettura, all’utilizzo di un prodotto direttamente derivante dalla fatica umana.

Lo “svecchiamento culturale”, in campo di critica d’arte, è stato possibile grazie alla mole di scritti, testi, riflessioni, che hanno saputo parlare di opere d’arte, di creazioni artigianali, dandone una lettura “per ciò che sono”, ovvero, oggetti che vivono in rapporto con altri oggetti. Non sempre chi ha inteso l’arte è riuscito a parlarne, a elaborare scritti, difatti, dobbiamo capire gli schemi del passato nel presente, poiché il gusto cambia per il variare del costume. Ma non bisogna soltanto attenersi al giudizio estetico: ciò che deve tenere in mente un critico è che non si possono criticare le opere tenendo in considerazione le dottrine filosofiche del tempo. Nel fare questo la critica non punta allo stabilire se un’opera è notevole o meno ma diventa un dibattito filosofico. Sono queste le basi della “dottrina” longhiana, dibattute da Roberto Longhi in Paragone, rivista di arte e letteratura fondata insieme alla moglie Anna Banti nel 1950.

Sul primo numero dell’editoriale Longhi scriveva:

«L’opera d’arte, dal vaso dell’artigiano greco alla Volta Sistina è sempre un capolavoro squisitamente “relativo”. L’opera non sta mai sola, è sempre un rapporto».

L’opera d’arte letta non più come esempio di solo genio umano ma come “rapporto” tra essa ed altri manufatti simili (e diversi) è il punto più alto che la critica d’arte può esprimere. Questo perchè per comprendere la natura dell’opera d’arte bisogna, per l’appunto, paragonarla ad altre, poiché è, innanzitutto, un documento, un piccolo mondo collegato a un più vasto sistema solare. Un dipinto è un documento visivo che ha una storia: è creato da un artista. Spesso, e fino ad un punto della nostra storia, è voluto da un committente ed è pensato per l’esposizione (non sempre) ad un pubblico. A questo ragionamento, di opera – documento, possiamo accostare tutto ciò che è nato per uno scopo ben preciso dalla maestranze degli artefici (pittori, scultori, architetti, disegnatori ecc.) per volontà di committenti.

Se questo è l’assunto per eccellenza al quale ogni critico d’arte, oggi, deve guardare, nello stesso numero, Longhi si premura di centrare un altro dei punti fondamentali, la “fragile esistenza fisica” dell’arte:

«La sua corposa ma fragile esistenza fisica, comporta, com’è noto, ‘cura di opere’ varie: dalle strutture di materiali grevi divenute ‘figurazioni del desiderio di abitare’, ai sassi divenuti statue parlanti, alle tavole o tele divenute dipinti vivi».

Il riferimento alle iconoclastie, ma più in generale alla estrema fragilità dei prodotti artistici, è il monito che, ancora oggi, deve essere attivo nelle nostre coscienze. Una lezione, dunque, che bene si sposa con quelle che sono le azioni mosse contro la storia, quella con la S maiuscola, rappresentata dai beni culturali e, più in generale, contro il patrimonio storico artistico.

Gli esempi recenti non mancano. Pensiamo a Palazzo Vecchio a Firenze: non basterebbe un giorno intero per riassumerne brevemente la storia. Un luogo che ancora oggi “vive”, un sito attivo nel quale interno troviamo il Museo dei ragazzi e uffici del municipio, ovvero, istituzioni e spazi aperti al pubblico. Eppure, recentemente, questo luogo è stato oggetto di un atto vandalico (per fortuna senza conseguenze permanenti) da parte di esponenti di un’associazione di attivisti ormai nota a tutti. Mi limito semplicemente a citare la motivazione che ha spinto gli esponenti dell’associazione a compiere quest’atto: avere l’attenzione mediatica sulle conseguenze del riscaldamento globale.

Se, chi compie questi atti, avesse la bontà di comprendere, anche per un solo attimo, che è un documento ciò che sta andando a colpire, credo che vi sarebbe la possibilità che il gesto possa essere evitato. Se vedessero le città come un grande archivio, fatto di documenti che parlano di libertà e di diritti, dunque di storia reale, forse, queste proteste non vedrebbero violenza alcuna, né contro di esse né contro un quadro in un museo o il marmo e il travertino di una fontana. Se considerassimo i nostri luoghi come degli archivi chi fra gli attivisti, con propositi di salvaguardare il pianeta e consegnarlo alle generazioni future, si assumerebbe il rischio di violare in maniera perpetua la “leggibilità” di un documento?

Scrivevo che il patrimonio culturale “ci vive” attorno. Se provassimo a capirlo, a comprenderlo fino in fondo, riusciremmo a connetterci col nostro passato, con le nostre radici, con ciò che ci ha preceduto in modo da avvalerci della facoltà di comprendere il presente, o, per lo meno, di avvicinarci alla sua comprensione.

Se agli atti di “protesta” sommiamo l’inciviltà diffusa, il cocktail è servito. Negli ultimi anni troppi i muri imbrattati nelle nostre città. Alcuni “tag” (così si chiamano in gergo) addirittura sui monumenti (proliferano sui palazzi storici del centro e su altri monumenti) e sulle chiese invadendo completamente i prospetti.

Gli esempi a portata di mano sono tanti, purtroppo, causati forse dall’ignoranza diffusa e dal poco senso civico. Ma questi fattori possono essere, parzialmente, contrastati se si inizia, massicciamente, a raccontare l’arte, a parlare della nostra storia, non solo come entità astratta ma come concreta connessione con ciò che ci ha preceduto.

Quanto costa il “frastuono” di un “tag” in una delle vie barocche più importanti della Sicilia?

Arco di S. Benedetto ricoperto di tag
Arco di S. Benedetto ricoperto di tag

Quella ristagnante e acida moda del deturpamento dei muri (ahimè, non solo semplici muri perimetrali ma anche i prospetti di chiese e monasteri) tramite una semplice bomboletta spray, quanto turbamento apporta negli animi dei numerosissimi fedeli che ogni anno, tra la notte del cinque e la mattina del sei febbraio, ascoltano estasiati quel purissimo e nobilissimo canto offerto dalle clarisse alla Santa Patrona Agata? Perché i duecento metri di storia di via dei Crociferi che conta, tra l’altro, ben quattro chiese, deve soffrire il lento e inesorabile disinteresse alla storia e al mantenimento del decoro?

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Muri perimetrali del monastero di S. Benedetto di via Crociferi, di fronte la chiesa di S. Benedetto

Come può restare il “buongoverno”, o, il singolo cittadino, illeso e non offeso dal deturpamento, dallo sfregio del bene pubblico? Anche le chiese, luoghi sacri che raccontano secoli di storia, di spiritualità e di senso di comunità, subiscono l’indifferenza dei più. Come si può non rimanere oltraggiati nella vista, e soprattutto nell’animo, dallo straziante esito di mani che non rispettano se stessi prima che gli altri? La chiesa di Santa Maria all’Indirizzo, in piazza Currò a Catania, offesa e vilipesa soprattutto, ripeto soprattutto, dall’indifferenza dei singoli sguardi ormai diseducati alla minima concezione del rispetto, nonché del bello.

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Il prospetto delle scalinate della chiesa di Santa Maria dell’Indirizzo

Parlarli bisogna. Prestare la propria voce al patrimonio storico artistico. Dalle tavole delle cappelle rinascimentali alle “umili” pale d’altare delle chiese di quartiere. Dalla sinopia di Ambrogio Lorenzetti alla Annunciazione di Antonello a Palazzo Bellomo. Dai mosaici di Cefalù agli affreschi di Giovan Battista Piparo presso l’ex monastero dei benedettini di Catania. Dalle mura medievali delle città ai “murales” di Dozza. L’opera d’arte è un capolavoro squisitamente relativo, non sta mai da sola ma è sempre un rapporto.

E se gli artisti “parlano per forme”, dialogando con il resto della società in modo da fornire un messaggio al mondo che cavalchi il tempo e giunga alla destinazione del domani, è a quel domani che dobbiamo pensare. Dalla committenza al pubblico, un oggetto artistico, un’opera d’arte è qualcosa di vivo ed è, soprattutto, qualcosa che va vissuto, preservato, comunicato e tramandato. Spiegare ciò per cui nasce un’opera, raccontare delle sue forme, della sua funzione, della sua storia, è, sostanzialmente, parlare della nostra storia.

Se Longhi, dunque, ha abbattuto il “tabù” del capolavoro assoluto, oggi, più che mai, bisogna tutelare, fortemente tutelare il patrimonio artistico “locale”, quello che, per troppo tempo è stato mal considerato. Due facce della stessa medaglia, le umili tamerici da un lato, il grande capolavoro “parlato” dall’altro. Tutte e due opere della “fatica” dell’uomo, tutte e due con una storia che arriva da lontano, dal miglioramento delle forme al cambiamento dei linguaggi.

Un piccolo invito, dunque, alla fine di questo breve scritto. Per noi addetti ai lavori, gli esempi noti come le Lettere a Giuliano Briganti da parte di Longhi (soprattutto quella datata 1944), devono essere un monito perenne.

Parlare di arte, parlare di noi. Fare critica, raccontare la storia delle cose che ci vivono attorno da secoli. Raccontare dei nostri luoghi, dei nostri borghi, dei nostri quartieri, delle nostre contrade. Ogni angolo di questa penisola, ogni spazio di questa Europa ha bisogno di essere ascoltato, ha necessità di voce. Che sia un dipinto, un castello normanno o un’edicola votiva, “parliamoli”. Sensibilizzare alla bellezza, alla pratica del decoro, del vivere civile, passa anche per le nostre vie. Il compito non è semplice ma necessario. Preservare la nostra identità e tramandarla alle generazioni future.

Ri-parlarli bisogna: è il dovere di cooperare, oggi più che mai, per comprendere ciò che intimamente siamo.

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