Correva l’anno 1956 quando il regista visionario Don Siegel diede alla luce uno dei capisaldi della cinematografia distopica del secondo 900, L’Invasione degli Ultracorpi, tratto dall’omonimo romanzo di fantascienza di Jack Finney di appena due anni prima. L’originalità del racconto e della trama spinsero altri cineasti a ripercorrere, rivisitandone di pochissimo i contenuti, il plot narrante eseguendo ben tre rifacimenti, ormai celebri trai cinefili di genere e non. Essendo figlio degli anni 80 mai potrò dimenticare l’ultima scena del primo (e probabilmente il meglio riuscito) remake, Il Terrore dallo Spazio Profondo. Il protagonista del film, interpretato da un fantasmagorico Donald Sutherland, il cui viso e le cui movenze sono perfettamente incastonate nell’epoca che descrive, cammina solitario al centro di una piazza vuota e viene notato da uno degli ultimi umani presenti in città (e forse nel mondo), una sua amica che timidamente prova ad invocarne il nome, ma felice e speranzosa di non essere rimasta sola; lui, distorcendo in maniera antologica i muscoli del volto, emette un suono sinistro dalla bocca (il richiamo per la sua specie) e la indica ai suoi simili come ultima preda terrestre da conquistare.

Bene, questa scena filmica iconica, pregna di contenuti ontologici e di consistente riflessione politico-morale ci catapulta immediatamente agli inizi del nuovo millennio. Anzi, nel momento dell’avvento della comunicazione interplanetaria avvolta dal/nel “net/web”. Vogliamo azzardare un parallelo ideale tra internet quale moderno prodotto del “baccello degli ultracorpi” e l’odierna realtà informativa unitaria/massificata e imperante o Pensiero Unico interconnesso mediaticamente? No, non ne rinveniamo il motivo, ma proviamo a tessere un coordinato ragionamento speculativo.

E procediamo precipuamente dai ranghi della potenza deduttiva della classificazione sociologica.

Erich Fromm, eminente psico-filosofo tedesco, ha descritto l’uomo moderno come un individuo con due volti: da un lato indipendente, autosufficiente e critico, dall’altro isolato e impaurito. Il sentimento di isolamento e impotenza è spaventoso e le persone normali lo stemperano nella routine quotidiana, nel successo economico, nelle distrazioni mondane mentre i cosiddetti nevrotici lo trascendono nell’arte, nella scrittura, nella musica. Dovendo affrontare da solo Dio (o il Mercato) l’uomo cerca la salvezza in una nuova sottomissione.

Le principali vie di fuga sono due: o la sottomissione a un capo (un “protettore magico”), come è avvenuto nei totalitarismi (passati e presenti), o un conformismo ossessivo, come avviene nelle democrazie (più o meno mature). I meccanismi di fuga dalla libertà possono essere patologici e allora provocano gravi stati schizofrenici o psicotici ma, che nella maggior parte dei casi, si verificano in persone normali.

Sostiene in maniera provocatoria, ma prettamente ed ineludibilmente positivistica: “Questo meccanismo è la soluzione che la maggioranza degli individui normali trova nella società moderna. Per dirla in breve, l’individuo cessa di essere se stesso; adotta in tutto e per tutto il tipo di personalità che gli viene offerto dai modelli culturali; e perciò diventa esattamente come tutti gli altri, e come questi pretendono che egli sia. […] La persona che rinuncia al suo io individuale, e che diventa un automa, identico a milioni di altri automi che la circondano, non deve più sentirsi sola e ansiosa. Ma il prezzo che paga è alto; è la perdita del suo io.

La lettura qualitativa sulla contemporaneità della ipermaterialità dei “corpi” non può poi eludere un approccio sistematico sua concetto degli “stili di vita disumani” imposti dalla società massimalista.

Il filosofo contemporaneo Carlo Sini, nel libro “L’uomo, la macchina e l’automa”, introduce una riflessione profonda sulle ragioni che, da sempre, alimentano l’interesse dell’uomo verso la creazione di un suo “doppio” più potente che sappia conquistare quei poteri che lui non ha. Questa ricerca, secondo Sini, incarna il cammino della civiltà: è all’automa che bisogna guardare perchè i soggetti ne sono il riflesso risultante. Egli scrive:

La sua azione [dell’automa] è duplice. Da un lato mostra l’angoscia originaria del soggetto umano, in quanto soggetto attivo “della” cultura e cioè “del lavoro”. Angoscia perchè il lavoro è la risposta, mai definitiva e sempre precaria, al sapere della morte: il sapere retroflesso dalle protesi della voce, della mano, ecc. Quel sapere di fantasmi che non può trovare soluzioni, sino a che continua a “credere” ai fantasmi e vi si modella come sapere. L’essere umano, sino ad oggi, è tale perchè ha visto la morte e ciò lo induce a ogni possibile “macchinazione” per stornarla, combatterla, cancellarla (compresa la tentazione simbolica, come diceva Freud, di liberarsene dandola ad “altri”). Tutta la storia umana, tutta la “cultura”, è così la storia di una successione di automi che mirano, in un modo o in un altro, alla produzione e riproduzione di “vita eterna” (compresa l’ipotesi di una accettazione finale della morte e del nulla, come abito di saggezza e come uscita dall’angoscia). […]

Il soggetto, diceva Whitehead, non è una sostanza, ma un supergetto: qualcosa che è in cammino e che in sé non è ogni volta che un momento riassuntivo e transeunte di forze effervescenti “in figura”. Come effetto di superficie mai definitivo, il soggetto non è la premessa o il “principio” sul quale puntare o da rivendicare, ma piuttosto il risultato da esibire per giustificare ogni volta il lavoro di una determinata cultura.

Il tour teoretico sulla ipercorporalità frutto dell’alienazione dell’individuo non può concludersi che nella drammaturgica visione sul futuro che qualcuno ci prospetta già da qualche anno.

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Il futurologo Ray Kurzweil (dal 2012 ingegnere capo di Google) sostiene, nel suo libro “La singolarità“, che il balzo tecnologico-evoluzionistico basato sull’interazione tra genetica, nanotecnologie e robotica, consentirà di “costruire” già dal 2030 individui ibridi che trascenderanno le nostre radici biologiche. Tali ibridi avranno dei nanobot (a base di DNA) nel sangue che, attraverso il flusso sanguigno, si distribuiranno in tutto il corpo umano innalzandone le difese immunitarie. Alcuni nanobot potranno agire nella neocorteccia, collegandosi con le piattaforme cloud, e incrementando l’intelligenza dell’essere umano medio.

Dunque dobbiamo chiederci, che ne sarà dell’uomo così come lo conosciamo? Assistiamo in questi anni a uno sviluppo impressionante della genetica e della robotica. Questo permette di risolvere molti problemi e vincere molte sfide dell’umanità: alcune malattie possono venire sconfitte, organi o parti del corpo danneggiate possono venire sostituite mediante trapianto o da protesi artificiali, la implantologia tech può supportare il corpo umano e allungare la vita delle persone. Tuttavia nascono nuove questioni di bioetica (fine vita, eugenetica, limiti della tecnica), ma soprattutto la questione che si affaccia all’orizzonte è l’identità stessa dell’uomo: cos’è l’uomo? Si può ancora parlare di essere umano quando si moltiplicano le protesi, i supporti artificiali, gli interventi sul corredo genetico?

Già da un decennio si dibatte eticamente sulle caratteristiche dei movimenti ideologici del Transumanesimo e del Post-umano. Due idee che sostengono il superamento della natura umana, in particolare attraverso la scienza e la tecnologia, in modo da accelerare l’evoluzione della vita intelligente “oltre” l’attuale forma umana.

I transumanisti partono da un presupposto dualista di tipo platonico-cartesiano secondo cui l’anima /mente è separabile dal corpo, la personalità è sganciata/sganciabile dal supporto fisico e non è altro che memoria, informazioni, attività mentale riducibile a dati informatici, scaricabili su altri supporti artificiali, che permettono di andare oltre la durata biologica della vita; questo comporta da un lato una certa svalutazione del corpo, dall’altro la sua risoluzione a macchina.

In secondo luogo è evidente, anche nella terminologia, il riferimento all’oltre-uomo di Nietzsche, cioè a quella trasformazione della persona da creatura limitata e bisognosa in un essere autosufficiente, pur con le dovute riserve (anche se Nietzsche esalta la finitudine dell’uomo fino all’amor fati che i transumanisti vogliono negare e superare).

In loro non manca nei confronti della religione l’atteggiamento disincantato e critico, riferibile in parte a Feuerbach e Marx, che tende a vedere la fede in Dio come una forma di rassegnazione e un ostacolo al pieno sviluppo delle capacità umane.

A questo punto il confronto tra transumanesimo e cristianesimo è evidente, così come le forti dissonanze strutturali.

La promessa cristiana di una salvezza oltre “la carne e il sangue” e di un’immortalità futura sono presenti anche nel movimento transumanista, vi è accordo sulla prospettiva finalistica dell’evoluzione, orientata oltre l’uomo verso la sfera del pensiero e della coscienza, che ha la sua convergenza in Cristo-Punto Finale.

Tuttavia resta per il transumanesimo una prospettiva puramente terrena, materiale e temporale: l’immortalità è biologica o bionica, la soteriologia è secolarizzata, Dio è reso impersonale e si identifica con una potenza creativa, l’obiettivo del continuo perfezionamento e miglioramento terreno non ha un obiettivo ben preciso ma estremamente generico: chi stabilisce cosa è migliore e perfetto?

Ulteriori angosciose domande nascono dal confronto cristianesimo/transumanesimo: la liberazione dalla finitudine e dalla morte mediante un’immortalità terrena è vera salvezza? È sufficiente e augurabile un’effettiva immortalità terrena? L’identità dell’uomo è riducibile a un software applicabile su hardware differenti?

Solo la tomistica di San Tommaso ci può venire in soccorso in maniera inattaccabile, come spesso le è accaduto nei secoli.

San Tommaso riprende la distinzione aristotelica fra Essere ed Essenza, rielaborandola con la distinzione fra ens per essentiam ed ens per partecipationem, centrale in tutta la filosofia scolastica.

Il bene per essenza è anteriore al bene per partecipazione, ragione per cui è impossibile quindi che Dio sia composto di materia e di forma, perché la materia è potenza e principio individuativo, e partecipazione alla forma. Le forme che possono essere ricevute dalla materia sono rese individuali per mezzo della materia, che non può essere ricevuta in un altro soggetto, essendo essa stessa il primo sostrato (della realtà corporea); la forma invece, di per sé, se non vi sono ostacoli, può essere ricevuta in più soggetti.

Quella forma però che non può essere ricevuta dalla materia ed è di per sé sussistente ha la sua individuazione per il fatto stesso che non può essere ricevuta in un altro soggetto.
Poiché l’essere è l’attualità di ogni forma o natura: infatti la bontà o l’umanità non è espressa come realtà attuale se non in quanto si dice che esiste. È necessario che l’essere stia all‘essenza, quando ne è distinto, come l’atto alla potenza. Non essendoci dunque in Dio alcunché di potenziale, ne segue che in lui l’essenza non è altro che il suo essere. Quindi la sua essenza è il suo essere.

Dio non è causato, ma è causa di tutti gli enti (gli umani), poiché l’essere appartiene intrinsecamente alla sua natura. Gli altri enti (umani) non sono il loro essere, ma lo hanno o ricevono o partecipano (ens per partecipationem) in Dio.

Dunque, se Dio si è fatto carne è possibile separare o svalutare il corpo, le sensazioni, le percezioni e considerarli non decisivi per la costituzione dell’identità effettiva umana? Cosa significa “migliorare” o “potenziare” la vita dell’uomo?

San Tommaso quindi se fosse presente qui ed ora probabilmente sosterrebbe che nel desiderio di una vita immortale che è presente nel transumanesimo si cela un desiderio più radicale di una qualità diversa di vita (come gli ultracorpi di Siegel), che non può essere ottenuta con le proprie forze mediante la tecnica, ma che può essere esclusivamente dono che viene concesso dall’alto, un «rinascere dall’alto» con Dio, in Cristo. Ovvero nella massima esaltazione universale della Spiritualità e della Immaterialità.

Insomma tutto questo indagare sulle prove documentali della storia umana non fa altro che riportarci, questa volta con qualche dubbio in meno, al punto di partenza. A quella stratosferica scena finale del film evocativo dell’induzione prospettica e riflessiva.

Ma una domanda inquietante (o forse rassicurante?) ci espelle all’stante dalla ionosfera della conclusione logica a cui eravamo pervenuti: ma siamo sicuri che Sutherland non fosse ancora umano e stesse fingendo per autoconservazione? San Tommaso chioserebbe con un sorriso.

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