Il salario minimo è la retribuzione di base per i lavoratori di differenti categorie, stabilita per legge, in un determinato arco di tempo e rivedibile a secondo delle dinamiche inflazionistiche. Si tratta in pratica di una “soglia limite” di salario sotto la quale il datore di lavoro non può scendere e che non può essere derogata, né dai contratti collettivi, né dagli accordi privati.

Un livello di reddito minimale al di sotto del quale il lavoro perderebbe di dignità in quanto non permetterebbe un livello di vita adeguato a standard civili.

Si parla da diversi anni in Italia della scelta di affidare il compito di determinare il livello minimo di salario alla legge e non solo alla contrattazione collettiva, così come avviene oggi. Vi sono state numerose proposte di disciplina del salario minimo ma per ora, nessuna è stata approvata, né ha trovato l’accordo tra le parti sociali.

Il salario minimo esiste in molti stati membri dell’Unione europea. La scelta di affidare il compito di determinare il livello minimo alla legge o alla contrattazione collettiva è fortemente correlata alle tradizioni dei sistemi di relazioni industriali tra organi datoriali e sindacati presenti nei singoli paesi. Nel Pilastro Europeo dei diritti sociali viene richiamato il diritto a una retribuzione equa e sufficiente e sono fissati i principi per determinare il salario minimo. Il Pilastro non prevede tuttavia una soglia minima europea, dal momento che sulla base dei Trattati europei la materia salariale è di esclusiva competenza dei singoli stati membri.

Il salario minimo tende ad equiparare i diritti dei lavoratori garantiti da un contratto collettivo nazionale dagli altri lavoratori spesso vittime di un precariato perenne fatto di contratti atipici presso piccole o piccolissime imprese. Va sottolineato che l’Italia è uno dei Paesi dove è più diffusa la copertura dei contratti collettivi nazionali, che interessano oltre l’85 per cento dei lavoratori. Pertanto, la misura interesserebbe solo una parte residuale ma socialmente debole della forza lavoro.

Tecnicamente i cosiddetti working poor sono coloro che guadagnano meno del 60% del salario mediano di una nazione.

In Italia, 11,7% dei lavoratori totali guadagnano al di sotto di questa soglia, il quarto numero più alto tra i Paesi europei. Questa dinamica è dovuta all’aumento negli ultimi anni, della precarizzazione del lavoro oltre alle forti differenze territoriali collegate all’atavico sottosviluppo delle regioni del nostro mezzogiorno.

Nei paesi dell’Unione europea, ventuno Stati membri hanno un salario minimo nazionale istituito per legge. Gli unici sei a non averlo sono Italia, Danimarca, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia. Nessuno dei Paesi scandinavi, che pure sono noti per avere uno stato sociale molto forte, ha istituito questa misura, a testimonianza che la correlazione automatica tra salario minimo e politiche sociali di inclusività è uno schema eccessivamente semplicistico.

Il salario minimo nelle nazioni europee è particolarmente variabile in quanto correlato alla ricchezza ed al costo della vita delle singole nazioni.

Si va dai 332 euro al mese della Bulgaria ai 2.200 del Lussemburgo.

Ma in Italia cosa accadrebbe con l’introduzione di un salario minimo? E questa soglia minima quanto varrebbe?

Nel nostro paese un salario minimo europeo, istituito al 60% del salario mediano nazionale, sarebbe inferiore rispetto alle paghe minime medie ottenute tramite contrattazione collettiva.

Ma appunto si tratta di medie.

In Italia esiste una fascia crescente di lavoratori identificati con la cosiddetta Gig Economy, l’economia dei lavoretti cioè quel sistema economico che non si basa su un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato o indeterminato, ma su un lavoro a chiamata dove l’organizzazione del lavoro avviene su una piattaforma online tramite App.

Pensiamo per esempio ai rider di aziende multinazionali come Deliveroo, Glovo o Foodora, che gestiscono le consegne a domicilio di ristoranti, negozi o altri tipi di attività commerciali tradizionali mettendo in contatto clienti e operatori. Ma sono gig workers, in un senso più ampio, anche baby sitter e insegnanti che fanno ripetizioni private.

Il termine “gig”, che significa ingaggio o lavoretto, sembra arrivare dalla musica jazz e da “engagement”, il termine con cui venivano indicati gli incarichi per i concerti dei musicisti, che riguardavano appunto spettacoli di una sola serata o per brevi periodi.

In Italia il giro di affari delle società che si avvalgono dei Gig Worker è pari a 900 milioni e la pandemia ha dato un grande sviluppo a tali settori per gli ovvi motivi correlati al lockdown.

È evidente che tali lavoratori beneficerebbero in maniera sensibile dall’istituzione di un salario minimo.

Ma non solo questi….

Il disegno di legge in discussione in parlamento introduce una disciplina sul salario minimo che basandosi sui contratti collettivi “leader”, ossia quelli siglati dai soggetti datoriali e sindacali più rappresentativi sul piano nazionale, fissando una soglia minima di 9 euro all’ora, in linea con i parametri di adeguatezza indicati dalla Commissione europea.

In alcuni settori la paga minima oraria è inferiore a questa soglia come, ad esempio, Turismo (7,48), Servizi socio-assistenziali (6,68), Pulizia (6,52), Vigilanza (6,2) e Tessile (7,09) proprio a causa di una busta paga più bassa rispetto alla media, tali settori dopo l’introduzione del reddito di cittadinanza stanno avendo seri problemi di recruitment.

Secondo INAPP (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) I lavoratori beneficiari dell’introduzione di un salario minimo legale a 9 euro orari sarebbero circa 2,6 milioni. Di questi, circa 1,9 milioni di lavoratori a tempo pieno (il 18,4% del totale) per un costo di 5,2 miliardi, e circa 680.000 lavoratori a tempo parziale (il 29% del totale dei dipendenti part-time) per un costo di 1,5 miliardi. Il costo totale per le imprese non sarebbe affatto banale pari a 6,7 miliardi di euro.

Questo notevole incremento dei costi, che graveranno in particolare sulle piccole e medie imprese specie del mezzogiorno, potrebbe portare a pratiche volte ad aggirare il salario minimo, attraverso ore straordinarie non retribuite, oppure alla sostituzione di contratti di lavoro subordinato con lavoro autonomo o molto più semplicemente ad un maggior ricorso al lavoro nero.

Le grandi imprese d’altronde potrebbero aumentare i processi di esternalizzazione del lavoro presso i paesi dell’est europeo, o extra comunitari dove il costo del lavoro è sensibilmente più basso.

Per tali motivi tra gli economisti si sollevano molte voci scettiche rispetto a tale misura.

L’introduzione del salario minimo determina nei fatti un incremento del costo del lavoro senza un corrispondente aumento della produttività, impattando quindi negativamente sull’occupazione e sull’inflazione.

Infine, alcuni imprenditori al fine di ridurre il costo del lavoro potrebbero rinunciare all’applicazione dei contratti collettivi, optando specie sui neoassunti, per l’applicazione del salario minimo, che, come abbiamo visto, sarebbe in genere estremamente più conveniente rispetto alle buste paga garantite dalla maggior parte dei contratti collettivi.

Questi potenziali sgradevoli effetti collaterali spiegano perché in Italia ci sono forti resistenze soprattutto nelle parti sociali (associazioni datoriali e sindacati) all’introduzione di questa misura.

Basti pensare che Il salario minimo era già stato previsto nel Jobs Act, con l’istituzione di una di una soglia da applicare almeno a quei settori non coperti da contrattazione collettiva, ma poi tale misura è rimasta inevasa nei decreti attuativi.

Allora dobbiamo rassegnarci a lavori mal pagati e regolamentati da app molto più spietate di un qualsiasi capo, che nei fatti sono nuove e moderne forme di schiavitù?

È evidente che in fase di introduzione la misura del salario minimo va supportata attraverso fondi pubblici come quelli derivanti dal PNRR, che soprattutto attraverso la leva della defiscalizzazione, aiuti gli imprenditori ad applicare salari dignitosi ai lavoratori, fugando le tentazioni dei licenziamenti, del lavoro nero o dell’aumento dei prezzi.

Inoltre, si potrebbero escludere per un periodo di tempo limitato, alcune categorie dall’applicazione della misura, come i disoccupati di lungo periodo oppure i giovanissimi (da 18 a 23 anni) in contratto di apprendistato, al fine di agevolare l’entrata nel mondo del lavoro di tali categorie in genere scarsamente professionalizzate e quindi con scarsa produttività al momento dell’inserimento lavorativo.

Il populismo, di destra come di sinistra, spesso avanza proposte semplicistiche e miopi, ma la verità è che non esistono ricette semplici ed anche una misura a mio avviso eticamente giusta e sacrosanta, come il salario minimo va adeguatamente programmata per evitare che crei più problemi di quelli che risolve

L’esperienza sull’applicazione del reddito di cittadinanza dovrebbe averci insegnato proprio questo. Una misura nata per contrastare la povertà, ma che applicata in modo deterministico non ha creato lavoro, ha causato problemi di recruitment nei settori sopracitati e purtroppo ha agevolato i soliti furbetti senza scrupoli.

 

Per approfondimenti

European Commission (2016), Labour Market and Wage Developments in Europe – Annual Review 2016, Luxembourg: Publications Office of the European Union,
https://bit.ly/2F7yEDW

Sito dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (INAPP) ente pubblico di ricerca, che svolge analisi, monitoraggio e valutazione delle politiche del lavoro
https://www.inapp.org/

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