Da qualche mese la tematica dell’inflazione ha travalicato le stanze delle Banche Centrali e gli uffici high tech dei quants di Wall Street, raggiungendo prima i tavoli dei CdA aziendali e, poi, letteralmente le tavole delle famiglie.

Il dato italiano: prezzi al consumo 2021

Il 17 gennaio u.s., l’ISTAT ha confermato quello che la realtà quotidiana ha già reso concretamente noto alle famiglie, comunicando che a dicembre 2021 in Italia l’indice dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC), al lordo dei tabacchi, ha segnato un ulteriore incremento del 0,4% su mese e 3,9% su anno (a novembre era 3,7%). In particolare, i prezzi dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona hanno raddoppiato la loro crescita da +1,2% a +2,4%, mentre quelli dei prodotti ad alta frequenza d’acquisto sono addirittura cresciuti dal +3,7% al +4,0%. Ovviamente, l’impatto dell’inflazione, che colpisce tutte le famiglie italiane, è stato maggiore sulle famiglie con minor capacità di spesa (+2,4%) rispetto a quelle più benestanti (+1,6%).

Per il Codacons, l’inflazione al 3,9% ha determinato una stangata media, considerata la totalità dei consumi di una famiglia “tipo”, pari a +1.198 euro annui.

Per Assoutenti, l’inflazione al 3,9% rappresenta un massacro per le tasche delle famiglie che, oltre ai rincari delle bollette di luce e gas, dovranno fare i conti con prezzi al dettaglio sempre più elevati.

Per la Confesercenti a rilevare è, soprattutto, l’aumento medio del 60% dei costi per elettricità e 65% per il gas nell’ultimo bimestre 2021 rispetto allo stesso periodo del 2019 (ultimo anno pre-pandemico) che si traduce, ad esempio, per un negozio di abbigliamento in costi medi di elettricità di euro 220 (vs euro 140 precedenti) e per ristoranti in euro 2.000 (vs euro 1.400) per energia elettrica ed euro 2.100 (vs euro 1.200) per gas.

Indici prezzi al consumo NIC Italia (Gennaio 2016 - dicembre 2021), variazioni percentuali congiunturali e tendenziali (base 2015=100). Fonte: ISTAT.
Grafico 1 – Indici prezzi al consumo NIC Italia (gennaio 2016 – dicembre 2021), variazioni percentuali congiunturali e tendenziali (base 2015=100). Fonte: ISTAT.

La colpa è della pandemia o delle Banche Centrali?

Molti economisti, politici e giornalisti, soprattutto quelli appartenenti alla corrente più in voga nella narrazione globalista odierna, si sono adagiati alla (presunta) certezza che le Banche Centrali abbiano la risposta giusta ad ogni problematica economico-politica, anzi, siano esse stesse la soluzione in quanto dotate, non solo di una sorta di onniscienza degli eventi di valenza economica (e non) del passato e del presente, ma anche di proprietà oracolari per il futuro.

La convinzione prevalente è, in breve, che le Banche Centrali (Fed e BCE in primis) possano manovrare (per alcuni manipolare) a proprio piacere i fattori alla base della teoria quantitativa della moneta, gestendo non solo l’offerta di moneta ma influenzando, attraverso diverse modalità d’intervento, sia la velocità di circolazione della stessa che, in ultimo, la produttività in termini reali. Purtroppo, la realtà si è mostrata, come di consueto, più complessa e difficilmente gestibile della teoria, evidenziando al contempo anche le carenze di una certa Politica appiattita de facto alle scelte di politica monetaria delle Banche Centrali.

Dopo anni in cui i mercati sono stati inondati di liquidità in modo non sempre oculato e forse più di quanto sarebbe servito per garantire la tenuta del sistema economico, dal 2021 l’aumento dei prezzi delle materie prime (dovuto a sua volta a fattori legati alla pandemia, tensioni geopolitiche ed a precise scelte di politica energetica, leggasi greenflaction), considerevoli criticità dal lato dell’offerta (soprattutto riconducibili a supply chain bottleneck nella logistica, es. congestione nel mercato dei container, o shortage di beni intermedi, come semiconduttori) e un rimbalzo post-pandemico della domanda (compressa nel 2020) hanno causato notevoli pressioni al rialzo sui prezzi, con l’inflazione mondiale in decisa accelerazione (+4,3% nel 2021).

Nel 2020, la maggior parte degli economisti ha sostenuto (ex post erroneamente) la tesi relativa alla possibilità di “prevenire” o “sterilizzare” un futuro avvento incontrollato dell’inflazione. Allo stesso modo, nel 2021 si è pensato – di nuovo erroneamente – di poter controllare l’accelerazione inflattiva confinandola nell’ambito di una benigna reflazione quando, invece, il ciclo economico sembra oggi dirigersi, se non corretto, più verso il baratro di una stagflazione (si legga a riguardo anche l’interessante articolo “The Stagflation Is Coming” di P. Gramm, ex presidente del Senate Banking Committee statunitense, sul Wall Street Journal). Gli stessi economisti provano, ora, a stirare le acque inquadrando il fenomeno inflattivo come in via di autoguarigione secondo il detto “high prices are the cure for high prices” e meramente “temporaneo”, sebbene questa cd. “temporaneità” tenda, di proiezione in proiezione, ad allungarsi sempre di più. Le stesse Banche Centrali hanno dovuto però rassegnarsi alla realtà, rinunciare a questa goffa caratterizzazione e prepararsi ad affrontare il fenomeno di petto. Nel 2022, in un contesto di continua – seppur più moderata – crescita dell’economia mondiale (sebbene di recente tagliata in stima dal FMI), l’inflazione totale è, infatti, attesa rimanere “altamente” stabile (+4,2%) per poi iniziare a rallentare solo nel biennio successivo (+2,8% in media). Cresce, così, il numero di esperti che incomincia a porsi il dubbio di un’inflazione tornata per restare (ad es. C.Mann, economista che collabora con la BoE, abbraccia la tesi di una strong-for-longer inflation). Personalmente, abbraccio la corrente di pensiero secondo cui la politica monetaria più che occuparsi di gestire l’inflazione in sé, debba gestire le aspettative di inflazione. D’altronde, l’inflazione corrente dipende dalle aspettative sull’inflazione futura (es. se le imprese si aspettano che i prezzi dei beni necessari alla produzione possano salire in futuro, cercheranno di aumentare le scorte oggi, facendo crescere oggi l’eccesso di domanda per semilavorati, e a catena i prezzi dei beni finali di consumo). Con questa premessa, se le aspettative sull’inflazione non cambiano, non c’è bisogno di intervenire. I prezzi “transitoriamente” alti, quelli cioè i cui rincari non si trasferiscono alle aspettative, non andrebbero contrastati. Viceversa, l’inflazione non “transitoria”, che impatta sulle aspettative, va contrastata. La preoccupazione della BCE e l’azione della Fed mostrerebbero per facta concludentia che ci troviamo nella seconda ipotesi, oltre cioè la semplice “transitorietà” inizialmente prospettata. L’ombrello conviene prenderlo ancor prima che piova, quando c’è un cielo nuvoloso con “aspettativa” di pioggia. Il circolo vizioso da evitare è che maggiori aspettative di inflazione alimentino quella corrente che, a sua volta, possa alimentare maggiori aspettative.

Sia essa più o meno temporanea, il problema non è certo il ritorno dell’inflazione in sé, che nel vicino passato pre-pandemico era addirittura auspicato, soprattutto dopo periodi anomali in cui si era sperimentata la disinflazione e nel 2020 perfino la deflazione (in Italia storicamente registrata prima del 2020 solo nel 1959 e nel 2016). Entro determinati limiti, infatti, è pensiero comune che l’inflazione sia fisiologica, anzi – almeno per i “puristi” delle teorie di Phillips – sia la chiave della crescita occupazionale, stante la relazione inversa tra il tasso di inflazione e il tasso di disoccupazione. Il problema è, semmai, che i) l’inflazione ha accelerato in modo eccessivo e repentino, ii) la curva è più alta in valori e lunga nel tempo rispetto a quello immaginato dai più, e iii) l’aumento dei prezzi non è stato accompagnato da un proporzionale aumento della produttività, dei salari e degli investimenti ma, semmai, da una “allocazione oligarchica” di risorse, parzialmente sterile in termini reali. Se consideriamo, in aggiunta, l’enorme ammontare del debito pubblico e privato (sia aziendale che personale), cresciuto e non diminuito negli ultimi anni (in parte “drogato” anche da garanzie pubbliche), non è difficile accorgersi dell’avvicinarsi di una pericolosa tempesta perfetta. Al fine di contrastare questa accelerazione dell’inflazione, le Banche Centrali potrebbero essere costrette, infatti, a ridurre gli strumenti quantitativi di sostegno dell’economia e, presumibilmente, ad aumentare i tassi di interesse. Tale scelta, se non gestita alla perfezione, potrebbe innescare, almeno in ipotesi, un’esplosione della bolla del debito pubblico e privato mondiale nonché la decelerazione degli investimenti produttivi. Una prospettiva questa tutt’altro che teorica se consideriamo che la politica monetaria della BCE si farà necessariamente più restrittiva e l’emissione netta di debito post-quantitative easing tornerà in territorio positivo già quest’anno. Negli USA, dove il tapering è già realtà, il boom dell’inflazione (confermatasi al 7,1% annuo nel mese di dicembre, massimo dal 1982, contro l’1,3% dell’anno precedente) ha avvicinato ulteriormente la stretta monetaria della Fed di cui Powell ha formalmente parlato in occasione dell’inaugurazione del suo secondo mandato. Il presidente della Fed, in audizione al Senato USA l’11 gennaio u.s, ha infatti anticipato addirittura tre rialzi del costo del denaro nel 2022 per sostenere l’economia e fare fronte all’aumento dell’inflazione (la Fed dovrebbe chiudere l’asset purchase program entro marzo e poi iniziare le strette a partire da giugno 2022). Ovviamente, se la domanda dovesse rallentare e si arrivasse ad una situazione di stagflazione, la Fed potrebbe (rectius dovrebbe) decidere di non procedere con un pericoloso aumento dei tassi. Gli effetti delle parole si incominciano, comunque, a vedere già sul Treasury Note a dieci anni, tornato di recente sui livelli pre-pandemici, ma forse solo all’inizio di un percorso d’inversione più ampio nel lungo periodo.

Grafico 2 – Andamento del US10Y dal 1980 ad oggi. Fonte: CNBC

L’effetto “cobra” delle politiche di stimolo

Nell’attuale condizione, sembra, dunque, configurarsi quel fenomeno ben descritto dall’economista H. Siebert come effetto “cobra” che si verifica quando, in conseguenza di errati stimoli nell’economia, si produce un effetto contrario a quello sperato. Il nome di tale effetto originerebbe da taluni eventi occorsi in India durante la dominazione britannica. In breve, il governatore inglese – volendo contrastare un’incontrollata invasione di cobra nelle province indiane amministrate – decise di offrire una taglia a qualsiasi cittadino che avesse portato degli esemplari morti alle autorità. Dopo aver cominciato a cacciare gli esemplari selvatici, la popolazione locale trovò però vantaggioso non ucciderli subito, ma piuttosto allevarli in grande quantità per ucciderli in seguito ed utilizzarne i corpi al fine di incassare le alte somme di denaro. Scoperto il trucco, il governatore dovette sospendere l’erogazione delle ricompense, in quanto apparve evidente che questo tipo di stimolo non avesse portato ai frutti sperati bensì ad uno spreco di denaro pubblico. Tuttavia, in seguito all’abolizione delle taglie, la popolazione indiana finì per liberare tutti gli esemplari che si trovavano ancora in allevamento, oramai inutili, sicché l’invasione di cobra alla fine assunse proporzioni ancora maggiori rispetto a quando si incominciò a combatterla.

Come si traduca in concreto l’effetto “cobra” ai nostri tempi è evidente. A furia di iniettare liquidità nel sistema senza garantirne una equa e funzionale distribuzione nella società (attraverso ad es. strumenti redistributivi di reddito) o direzione verso investimenti produttivi in luogo di cespiti improduttivi o distorsivi (si pensi al nostrano bonus 110%), si è generato un picco di inflazione sostanzialmente incontrollato, a cui non è corrisposto un adeguato aumento degli investimenti, un parallelo aumento delle buste paga e una sana riduzione del debito. In Italia, per esempio, il rischio è che, con l’attuale generale rincaro dei prezzi e, in particolare, delle materie prime, i) non solo i settori energy intensive ma molti altri spostino all’estero le produzioni realizzate in Italia o, addirittura, fermino gli impianti, ii) i consumatori riducano sensibilmente i propri acquisti, accelerando ancora di più un circolo vizioso.

Poiché il futuro, a differenza del passato, non è scritto nella pietra, con le opportune scelte ed il giusto timing si può evitare che la tempesta perfetta sopra accennata si compia. C’è, però, più che mai l’urgenza di affrontare il problema con interventi sia congiunturali immediati che strutturali di medio/lungo termine. La transizione alla normalità va insomma gestita con grande cautela per evitare bruschi contraccolpi e questo compito appartiene soprattutto ai Governi e non alle Banche Centrali.

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